[*L’articolo è stato scritto dall’Autore insieme a Tiziana Di Maio]
- Introduzione
La vulgata è che tutti i governi sovranisti che si stanno affermando in Europa abbiano un denominatore condiviso, quello di mettere in discussione le politiche comuni dell’Unione Europea. L’esempio forse più plastico è come il gruppo di Visegrád ha bloccato sul nascere l’avvio di prassi di redistribuzione verso altri membri UE dei migranti sbarcati nei Paesi del sud Europa. Ma questo non è che un prototipo di come i governi sovranisti cerchino di ritagliarsi un’UE ‘à la carte’, ove ciascun Paese prende ciò che gli è permesso senza realmente condividere un progetto unitario. Quei Paesi, del resto, per lo più non aderiscono neanche alla moneta comune, il principale pilastro dell’unificazione europea degli scorsi decenni.
In questo breve articolo sosterremo un’ipotesi controcorrente. Vale a dire che possano essere proprio i Paesi dell’Europa centro-orientale – inclusi quelli di Visegrád – a divenire novelli paladini dell’UE per costruire una difesa comune dall’espansionismo russo, nell’ambito di un disimpegno nella copertura dell’ombrello difensivo statunitense sull’Europa. Inoltre, se ciò accadesse, la difesa comune prenderebbe la staffetta dalla moneta comune come elemento propulsivo dell’unificazione europea, un binomio ben intravisto da De Gasperi nel 1951.
2. Europa, difesa e integrazione
«Ieri De Gasperi, a Grottaferrata, mi ha dato via libera sul tema dell’Esercito europeo: lui ne è molto più convinto che agli inizi del Piano Schuman. Ne è entusiasta. Aveva sempre detto, del resto che l’unità si fa o con l’Esercito o con la moneta» (Taviani, 2001, 189).
Così annota il 18 settembre 1951 sul suo Diario Paolo Emilio Taviani, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel VII governo De Gasperi (nel quale il presidente del Consiglio aveva assunto l’interim degli Esteri) e dal 1950 alla guida della Delegazione italiana per il Trattato sul Piano Schuman. Si discuteva, come è noto, il Piano per la nascita della Comunità Europea di Difesa (CED) elaborato da Jean Monnet e presentato dal presidente del Consiglio francese, Renè Pleven, al fine di trovare una soluzione adeguata alla questione del riarmo tedesco. L’affermazione riportata da Taviani mette bene in luce la centralità della difesa comune per la costruzione europea. De Gasperi, era nato cittadino della doppia monarchia, in quell’impero austro-ungarico che con l’Ausgleich del 1867 aveva messo in comune i tre ministeri centrali, Esteri, Finanze e Guerra e capiva che questo avrebbe potuto essere il modo di fare l’Europa politica, perché nel momento in cui gli europei avessero deciso di condividere le forze armate, di conseguenza avrebbero dovuto condividere il potere politico. E, difatti, nel Trattato CED De Gasperi fece inserire un articolo secondo il quale l’Assemblea parlamentare, prevista per la CED, avrebbe «studiato le basi per un’unione federale e confederale, per sviluppare ed allargare al livello politico i primi inizi di vita comunitaria».
Il Piano Pleven era stato imposto da una serie di circostanze che, ponendo fine al monopolio atomico americano, mettevano in discussione la sicurezza dell’Europa occidentale: l’atomica sovietica (agosto 1949) e la guerra di Corea (giugno 1950, che lasciò temere un’analoga azione a scopo di riunificazione del Paese attuata dall’URSS attraverso la DDR nei confronti della Repubblica federale di Germania) avevano posto l’urgenza di portare la difesa dell’Europa il più lontano possibile a est, riarmando la Germania occidentale. Furono gli Stati Uniti in sede di organizzazione della NATO a prospettare il riarmo tedesco (tanto temuto e osteggiato dai francesi, a cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale non ancora pronti a rivedere un tedesco in divisa) 2 attraverso la costituzione di un esercito unico con uno Stato Maggiore internazionale e unità tedesche incorporate, quasi creando l’Europa senza dirlo, come scrisse il ministro degli Esteri Sforza a De Gasperi nel settembre del 1950. La soluzione statunitense venne ripresa per necessità dai francesi proprio all’indomani dello scoppio del conflitto coreano e riproposta a livello europeo nel Piano Pleven con un’impostazione che rifletteva direttamente l’approccio monnettista al problema tedesco.
È fuor di dubbio che l’impulso americano e la minaccia sovietica siano stati i due fattori essenziali dell’avvio del processo di integrazione europea e altrettanto lo è la centralità del ruolo statunitense nella difesa dell’Europa. Il Patto di Bruxelles e l’Alleanza Atlantica, nati in risposta alla richiesta europea di protezione militare dalla temuta aggressione sovietica, avviando la militarizzazione della guerra fredda rafforzavano il Blocco e la superpotenza occidentale e, così facendo, soddisfacevano un interesse di rafforzamento comune. È altrettanto fuor di dubbio che l’integrazione europea si avvia con l’obiettivo principale della pace e della sicurezza. Il piano Schuman (anche questo elaborato da Monnet) da cui prese vita la prima Comunità europea, la CECA, scaturiva dall’Appello rivolto il 9 maggio del 1950 dal presidente del consiglio francese Robert Schuman al cancelliere tedesco Konrad Adenauer a mettere in comune le risorse carbosiderurgiche sulla base di una riflessione tanto semplice quanto acuta: «La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà sì che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile».
Se ripercorriamo gli eventi successivi al Piano Pleven e, in particolare alla bocciatura della CED che da tale progetto si sarebbe dovuta costituire, possiamo individuare due costanti: l’integrazione politica dell’Europa non si è realizzata e, a circa settanta anni dall’annuncio di quel Piano, la difesa europea è rimasta sotto l’ombrello americano. La moneta non è stata in grado di unire politicamente stati che pur hanno rinunciato a una porzione importante della propria sovranità, infine la crisi economica dell’ultimo decennio ha rischiato seriamente di mettere in crisi la solidarietà, uno dei valori fondanti dell’Unione.
Al tempo della guerra fredda la minaccia strategica e ideologica dell’URSS conferirono legittimità alla presenza e alle iniziative statunitensi, perché gli europei lo volevano e, in parte anche perché erano costretti a farlo. Ma non sempre gli Stati Uniti si dimostrarono pronti a difendere l’Europa a ogni costo, soprattutto quando la difesa dell’Europa avrebbe potuto mettere a rischio la sicurezza americana, come stigmatizzano le diverse soluzioni delle due crisi di Berlino. In quella del 1948-49, forti del monopolio e del predominio atomico, gli USA non esitarono a contrapporsi al tentativo sovietico di eliminare la presenza (armata) occidentale da Berlino ovest, mentre in quella del 1958- 61 (apertasi all’indomani del lancio dello Sputnik, che, mettendo a rischio il territorio degli Stati Uniti mandò in crisi la «massive retaliation», base della dottrina strategica dell’Alleanza Atlantica) raggiunsero il ‘compromesso del Muro’. Gli europei compresero allora che l’ombrello americano avrebbe potuto anche non aprirsi. Fu de Gaulle a porre con decisione l’interrogativo all’indomani dell’annuncio del ‘grande disegno del presidente Kennedy’, della partnership fondata sul pilastro europeo e su quello americano, che lasciando la decisione dell’uso dell’arma atomica agli Stati Uniti, riproponeva il quesito: gli Stati Uniti l’avrebbero sì o no impiegata per la difesa degli europei? Dalle trattative successive de Gaulle non dedusse una risposta del tutto affermativa e agì di conseguenza facendo uscire la Francia dalla NATO e avviando un programma nazionale di difesa nucleare. Anche da quella crisi nacque nel 1963 il Trattato dell’Eliseo, che prevedeva di istituzionalizzare la cooperazione tra i due paesi nei settori della difesa, della politica estera, dell’educazione e della cultura. Il Trattato franco tedesco del 1963 (e la sua successiva evoluzione e implementazione) è padre dell’accordo firmato ad Aquisgrana il 22 gennaio scorso, accolto con forti critiche nel nostro e in molti Paesi europei.
È dal dicembre 2017 che 25 dei (ad oggi) 28 Stati membri dell’UE lavorano a un progetto di cooperazione strutturata permanente (Permanent Structured Cooperation – PESCO) con l’obiettivo di coordinare le attuali iniziative isolate di cooperazione militare, in linea con il concetto di cooperazione permanente per la difesa introdotto nel Trattato di Lisbona. Tuttavia, ad oggi, essa non sembra essere ancora riuscita a produrre risultati nel quadro di una maggiore integrazione politica. Inoltre, alle dichiarazioni immediatamente favorevoli del segretario generale della NATO Stoltenberg, nel 2018 sono seguite tensioni con gli Stati Uniti, riflesso di un’incomprensione presente nel confronto USA/UE dall’elezione del presidente Trump. Un’incomprensione che, come sul piano commerciale, vede alternarsi accuse di protezionismo e richiami alla reciprocità e rischia di creare una frattura nelle relazioni euro-atlantiche.
La costruzione europea, quale si è concretizzata e sino ai nostri giorni, ha conosciuto alti e bassi e si è evoluta continuamente e il più delle volte ha trovato slancio e nuovo vigore affrontando sfide e vere e proprie crisi. Non è possibile prevedere quale sarà il punto d’arrivo, ma in una fase in cui il multilateralismo viene apertamente messo in discussione, al centro della riflessione è ancora una volta l’opportunità (o la necessità) che l’Europa sia in grado di provvedere autonomamente alla propria difesa. La posizione assunta dall’amministrazione Trump sulle nuove esigenze di sicurezza, l’assertività russa, il dinamismo cinese e la decisione britannica di uscire dall’UE, ripropongono la necessità di un’adeguata valutazione del disegno di un’Europa ‘terza forza’ (oggi ormai quarta?) – che era stata sin dalle origini una delle espressioni del pensiero europeista – e uno slancio politico che non sia più solo quello dell’Euro. Oggi come allora i confini caldi dell’Europa si trovano a est, oltre la cortina di ferro di quell’epoca, e sono rappresentati dai limiti orientali di stati dell’ex blocco sovietico o della stessa ex URSS, attualmente membri della NATO, ma anche dell’Unione europea. Un’unione oggi per alcuni di questi molto spesso solo ‘à la carte’.
3. Riduzione del peso economico dell’Europa
Va da sé che, per l’impostazione sovranista, poco peso hanno considerazioni sull’opportunità di fare massa critica a livello europeo, di fronte agli sconvolgimenti negli assetti geo-economici che rischiano di marginalizzare il vecchio continente. Ad esempio, sarebbe logico pensare che all’Unione Europea servirebbe molta coesione per poter gestire al meglio la riduzione del suo peso economico sullo scacchiere globale, più che dimezzato (da oltre il 30 a meno del 15%) nei cento anni dalla vigilia della Prima Guerra Mondiale ai nostri giorni e che l’OCSE prevede scenderà al di sotto del 10% nei prossimi quaranta anni (fig. 1). Ma è altrettanto logico che ciò non conti per i sovranisti.
4. Ombrello difensivo USA nel mondo e in Europa
Vi sono però altre dimensioni nelle quali gli interessi dei governi sovranisti potrebbero anche convergere sull’esigenza di rafforzare le politiche comuni europee. È questo il caso della politica di difesa a livello UE. Tale istanza va correttamente collocata nell’ambito dell’indebolimento dell’ombrello protettivo americano e del crescente espansionismo russo.
È ben noto che dopo la Seconda Guerra Mondiale l’impegno militare esterno degli USA crebbe di nuovo in corrispondenza della Guerra di Corea, prima, e della Guerra del Vietnam, poi, arrivando a toccare 1.200.000 unità in servizio all’estero (fig. 2). Successivamente, l’impegno si dimezza negli anni ’70-’80 e subisce un ulteriore dimezzamento dopo il Crollo del Muro di Berlino. Anche l’aumento delle truppe americane all’estero dopo l’attentato alle Torri Gemelle è stato di breve durata e il numero è sceso nel 2016 al di sotto delle 200.000 unità, valore minimo nell’arco degli ultimi sessanta anni. Naturalmente, dato il contestuale forte sviluppo di tecnologie militari ‘unmanned’, il crollo da 1.200.000 a 200.000 unità non implica un disimpegno da 6 a 1, è però, comunque, indicativo di una certa riduzione dell’ombrello di difesa che gli USA offrono oggi ai loro alleati rispetto a quanto facevano alcuni decenni or sono.
Relativamente alla presenza all’estero di basi militari statunitensi, le tre cartine nella colonna di sinistra della figura 3 ne mappano la distribuzione globale a tre momenti significativi: il 1945, alla fine della Seconda Guerra Mondiale; il 1989, alla vigilia del Crollo del Muro di Berlino; il 2015, l’anno più recente per il quale le informazioni sono disponibili. In particolare, passando dal 1945 al 1989 si nota la forte riduzione di basi militari specie in America centrale e meridionale nonché in Asia del sud e del sud-est. Invece, tra il 1989 e il 2015 si assiste a una riduzione in termini relativi delle basi in Europa mentre aumentano quelle in Medio Oriente e Africa e, in minor misura, quelle in Asia. Tornando alle truppe americane all’estero, la loro distribuzione geografica è riportata nel grafico nella colonna a destra della figura 3. Si vede che, pur rimanendo forte anche in Europa, l’area che attrae più militari USA è l’Asia, in particolare quella del nord-est. Soprattutto, va considerato che la presenza militare USA in Europa non cresce nonostante il significativo ampliamento a est dellaNATO (fig. 4 – pannello sn).
Nel complesso, i dati che abbiamo visto suffragano l’ipotesi che sia in corso un qualche indebolimento dell’ombrello protettivo americano per l’Europa. Per di più, sebbene l’intensità del fenomeno appaia ancora limitata, la variabile ‘Presidenza Trump’ pare suscettibile di esercitare un’accelerazione. In particolare, la presidenza americana è diventata molto più vocale e muscolare nel chiedere una maggiore partecipazione ai costi NATO da parte dei Paesi europei.
Parallelamente al relativo disimpegno americano, anche in risposta all’allargamento a est della NATO, la Russia ha risposto con l’annessione della Crimea e prendendo parte nella guerra civile in Ucraina (fig. 4 – pannello dx). La Russia ha anche risposto ‘colpo su colpo’ alle manovre della NATO vicine ai suoi confini (fig. 5), con ciò venendosi a creare situazioni potenzialmente esplosive.
5. Conclusioni
Nonostante il prevalere di partiti e movimenti sovranisti abbia portato negli ultimi anni alcuni dei Paesi del Gruppo di Visegrád (es. Ungheria, Slovacchia) ad ammorbidire i loro rapporti con la Russia, pare logico ipotizzare che tanto il Gruppo di Visegrád quanto i Paesi baltici tornerebbero a percepire la minaccia dell’espansionismo russo qualora l’ombrello NATO si indebolisse. E quest’ultimo è un evento che non si può escludere considerando che i Paesi europei potrebbero non essere disponibili a sopportare un forte aumento nel costo di partecipazione alla NATO.
In tale condizione di indebolimento dell’ombrello NATO, sembrerebbe naturale ipotizzare che l’alternativa credibile sarebbe quella di rafforzare la politica comune di difesa UE. E allora, potrebbe determinarsi uno scenario in cui sarebbero gli stessi Paesi del Gruppo di Visegrád (oltre ai baltici), a farsi promotori del rafforzamento della difesa comune UE. In tale quadro, futuribile ma non impossibile, questo gruppo di Paesi che sono ora percepiti come una minaccia al progresso dell’UE potrebbero divenire paladini della difesa comune europea.
Qualora ciò accadesse, si realizzerebbero inoltre due cambiamenti importanti. Primo, sul piano politico, il mutamento pro-UE dell’Est Europa genererebbe una nuova situazione per l’eventuale peso dei partiti e movimenti sovranisti potenzialmente trasformando sovranisti nazionali in sovranisti europei. Secondo, se ciò riaccelerasse la lena verso l’unificazione UE, si concretizzerebbe la profezia di Alcide De Gasperi sui due capisaldi dell’integrazione europea: nel momento in cui la moneta comune – dopo le vicende della crisi economico-finanziaria decennale – ha perso la sua forza propulsiva, il testimone potrebbe essere preso dalla difesa comune.
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