In analogia a quanto scritto dai Professori Di Maio e Ferri nel loro saggio E se i sovranisti di Visegrad diventassero paladini della difesa Comune Europea?, anch’io sosterrò una tesi controcorrente: E se il Mediterraneo divenisse una delle tessere del ‘Grande Gioco’ del XXI secolo?.
Parto da un triplice presupposto: 1) in un mondo in via di rapida complessificazione tutti coloro che sono privi di una visione globale sono destinati ad essere tagliati fuori dai cambiamenti epocali in corso, e ciò vale anche per l’Unione Europea. Pertanto, è non solo auspicabile ma quantomeno possibile che la Difesa Comune Europea completi la dimensione della moneta unica come fattore unificante dell’Unione, ponendosi come sua ‘fase due’; 2) da quanto sopra consegue che l’incalzare degli avvenimenti spingerà i grandi Paesi dell’Unione, in primis Francia e Germania, con il sostegno dei due principali mediterranei, Italia e Spagna, a tornare a svolgere la loro funzione storica di ‘motore’ del progetto europeo; 3) il buonsenso e l’istinto di conservazione spingeranno il composito elettorato europeo a confermare la maggioranza ai partiti tradizionali alle imminenti elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, si vedrà con quale margine.
Un Wishful thinking? Forse si, forse no. Qualora questi mattoni di un disegno innovativo dell’Unione rappresentassero – volente o nolente – le priorità per Bruxelles e gli Stati membri nei prossimi anni, si aprirebbe per il Vecchio Continente un nuovo scenario di politica estera, in grado di consentirgli di reagire alle iniziative erratiche della Presidenza Trump (una seconda?); all’attivismo revanscista di Mosca, sostenuto dalla forte presa dell’ideologia panslavista e dalla gerarchia ortodossa; al disegno strategico di Pechino che con la ‘Road&Belt Initiative’ mira a sostituire la sfera transatlantica con quella euroasiatica; di iniziare a riflettere seriamente su cosa fare con la Sponda sud del Mediterraneo e, dietro di essa, l’immenso continente africano.
Ed è proprio su questi ultimi due aspetti che centro la mia analisi. Pertanto, a fianco della condivisibile tesi sostenuta da Di Maio e Ferri ne avanzo un’altra: quella che fa perno sul Mediterraneo, che potrebbe rivelarsi politicamente più urgente e strategicamente impegnativa rispetto alla ‘priorità Russia’. Il Sud prima dell’Est.
Ma non è già così? Non è più urgente farsi un’idea di quali saranno le conseguenze per il Continente – tutto il Continente – della nuova fiammata popolare che ha inghiottito l’Algeria con i suoi milioni di persone in piazza contro il ‘Pouvoir’? O su fino a che punto i ‘campi di raccolta’ dei profughi africani in viaggio verso l’Europa potranno contenere le masse umane che li popolano prima che esplodano ed esse tornino a riversarsi vero le nostre sponde? O su quanto di nuovo preannunci il declino del consenso elettorale del Presidente Erdogan? O se la rete di condotte energetiche che trasferiscono gli idrocarburi dalla Sponda Sud a quella Nord possano, se efficientate, alleviare la dipendenza in primis dei Paesi dell’Europa Orientale dalle forniture russe? O se la gestione frugale delle risorse agricole ed ambientali in atto in Tunisia e Marocco possano fornire spunti per il cambiamento del modello di sviluppo europeo sotto pressione per la sua scarsa flessibilità?
Quale che sia la – peraltro secolare – preoccupazione delle Cancellerie dell’Europa Orientale e delle sue opinioni pubbliche, la Russia non tornerà ad essere quel ‘nemico’ con il quale l’Occidente si era confrontato lungo tutto l’arco della Guerra Fredda. Sostenerlo rappresenta il riflesso condizionato di leadership in panne di immaginazione che sulla staticità strategica avevano costruito una narrativa che continuano ad accreditare. Al contrario, la Russia consoliderà il proprio ruolo – in modo ormai probabilmente irreversibile – di ‘avversario strategico’.
Il Presidente Putin con indubbia abilità sta dando vita ad una ‘internazionale’ di regimi autoritari e nazionalisti che mira ad accreditarsi, alla stregua del comunismo del passato, come alternativa all’Occidente. Egli non può ambire al ruolo di ‘attore protagonista’ che ormai appartiene al Presidente cinese Xi, di cui egli rappresenta ‘la spalla’, con un PIL 7 volte inferiore, una popolazione 10 volte inferiore ed un bilancio militare pari ad 1/3. La Russia può annettersi la Crimea, fomentare disordini in Ucraina, riguadagnare terreno e prestigio in Medio Oriente, ma resta la dodicesima economia del mondo, il suo PIL è 12 volte più piccolo di quello americano; le sue infrastrutture sono fatiscenti, è corrosa dalla corruzione, è il 21mo esportatore al mondo, è al 17mo posto per R&D, la sua spesa militare è inferiore a quella dell’Arabia Saudita e al combinato disposto di Francia e Germania.
Ne consegue che la Russia resta un player strategico per il suo arsenale nucleare, la vastità del proprio territorio, le riserve di materie prime e tassello essenziale di quella tripartizione Cina-Europa-Russia che la ‘Road&Belt’ anticipa, ma tra i tre è il ‘junior partner’. Non è certo quell’«Alto Volta con missili nucleari» di cui scriveva il Cancelliere Schmidt nelle sue Memorie, tuttavia sembra mancare – e sempre più in prospettiva, in specie nel fondamentale settore del Soft Power – delle caratteristiche che definiscono uno Stato competitivo nel XXI secolo.
Il Mediterraneo, e dietro di esso l’Africa, rappresenta invece una più complessa ed urgente sfida geostrategica. L’«Arco di Crisi» di cui scriveva Brzezinski nel 1979 si è dilatato fino a comprendere tutto il Nord-Africa e ormai anche la Turchia e l’Asia centrale.
Il Mediterraneo è il luogo in cui convergono gli antagonismi di quelle che un tempo si definivano Superpotenze, tra le quali occorre ormai annoverare la Cina, il cui duplice obiettivo è quello di: 1) sviluppare rapporti “one on one” con tutti i paesi della regione; 2) sostituire l’”ordine transatlantico” con quello ‘euroasiatico’, con capolinea a Pechino.
Tante le crisi, nessuna risolta o in procinto di esserla, indipendentemente dalla questione migratoria, cui le classi politiche e le opinioni pubbliche europee pensano quando guardano al Mediterraneo, peraltro senza nulla fare per affrontarla. La Turchia di Erdogan, sempre più un ‘loose cannon’ sulla tolda dell’incerta corazzata occidentale; le ‘primavere arabe’, sfiorite senza che l’Europa abbia mosso un dito per aiutarne il radicamento; la ricostruzione della Siria; l’incancrenito conflitto a bassa intensità – ma non per questo meno pericoloso – tra Israeliani e palestinesi; la gestione del ‘dopo Stato Islamico’, nella certezza che il terreno di cultura sul quale è proliferato il DAESH non è stato rimosso.
Eppure il Mediterraneo nella sua accezione allargata potrà costituire in futuro – così come era stato per il passato – un polo di enormi potenzialità. Il PIL dei paesi mediterranei – esclusa l’Europa – ammontava, nel 2013 a circa 1500 miliardi di dollari, ovvero il 2,5 per cento del PIL mondiale e tra il 2003 ed il 2013 era cresciuto del 23 per cento, quasi il doppio di quello mondiale: la regione, popolata da 300 milioni di persone, vanta una ricchezza superiore a quella della Russia e non lontana da quella dell’India (1,3 miliardi di abitanti).
Senza nemmeno menzionare l’enorme potenzialità – ed anche qui i cinesi hanno colto prima degli altri l’opportunità – rappresentata dalla ‘Belt&Road’ (un progetto che si accinge ad ‘abbracciare’ 65 Paesi con un investimento iniziale di 1000 miliardi di dollari), che nel suo braccio marittimo, grazie al raddoppio del Canale di Suez, agevolerà enormemente il collegamento tra la regione transatlantica e l’Asia.
È miope non cogliere il nuovo che si annida, sotto la coltre dei tanti fallimenti del passato, nel mondo arabo mediterraneo che si avvia, anche per motivi generazionali, ad una nuova organizzazione (vedi, da ultimo, le manifestazioni in Algeria contro Bouteflika ed il suo regime, un paese che agli ‘osservatori’ occidentali sembrava immobile). Nuove infrastrutture energetiche, migliori corridoi di trasporto – la connettività del XXI secolo, come sostiene Pareg Khanna – potrebbero trasformare il Maghreb ed il Levante in un crocevia di collegamenti privilegiati con l’Europa, l’Africa e l’Asia. Il mondo cambia in fretta e non attende chi è distratto: trent’anni orsono gli Emirati Arabi Uniti erano solo una polverosa costellazione di staterelli, ed oggi sono il principale hub aeroportule del mondo; la Turchia è la 17ma economia del pianeta; senza dimenticare l’Egitto con i suoi 100 milioni di abitanti e l’Iran con 80.
Quello della Sponda Sud è un mercato destinato a crescere per le sue dinamiche demografiche: 100 milioni di nuovi abitanti da qui al 2030. Ed è anche una regione ‘giovane’: l’età media nell’Unione è di 45 anni, in Nordafrica di 24. Il 40 per cento della popolazione stanziata sulla Sponda Sud ha meno di 14 anni. Ma anche la disoccupazione è tra le più alte al mondo: il tasso di partecipazione dei giovani maghrebini al mondo del lavoro è del 38 per cento a fronte di una media mondiale del 50.
Secondo Lucio Caracciolo, Direttore di Limes, gli europei «vedono il Mediterraneo come un fossato a protezione della Fortezza Europa». Dei tre fattori che generano tale sentimento – pressione demografica, deperimento dell’economia, cambiamento climatico – è il primo quello decisivo. L’asimmetria demografica tra Europa ed Africa fa impressione: l’Europa – includendovi la Russia – conta 730 milioni di abitanti, ovvero il 10 per cento della popolazione mondiale, che scenderà al 7 nel 2050 ed al 5 nel 2100. L’Africa oggi vanta il 16 per cento della popolazione del pianeta (1,2 miliardi), ma salirà al 25 nel 2050 (2,5 miliardi) e al 40 per cento nel 2100. In quel momento per 1 europeo vi saranno 9 africani….
Il Professor Branko Milanovic, della New York University – tra le massime autorità mondiali nel settore delle diseguaglianze – ed il Professor Stephen Smith, della Duke University ed ex Capo redattore di «Le Monde» per l’Africa, nel suo La Ruée vers l’Europe, – citato da Macron – indicano che solo nel 2050 gli africani si avvicineranno ad una soglia di redito di cui già oggi godono centinaia di milioni di cinesi. Per questo la spinta a mettersi in marcia sarà ineludibile e plurigenerazionale.
In sintesi, il Mediterraneo rappresenta una enorme sfida: è un ‘cantiere’ abbandonato per mancanza di visione. Inoltre, a differenza del ‘Grande Gioco’ anglo-russo ottocentesco, è ad alta intensità, un vero e proprio vulcano di cui solo la trascuratezza degli ‘addetti ai lavori’ impedisce di rilevare i sintomi di imminenti rivolgimenti. L’Europa – già alle prese con la propria crisi di credibilità interna – dovrebbe lanciare segnali coerenti alla Sponda Sud, che non è lontana dalle sue coste come il Pacific Rim, il Mare di Barens, la regione del Monsone, lo stretto di Malacca: da Kelibia e Capo Bon, in Tunisia, nelle giornate di bel tempo, si scorge l’isola di Pantelleria, l’avamposto dell’Europa.
Che fine hanno fatto gli aiuti promessi dall’Europa fin dal tempo delle ‘primavere arabe’? Ed il tanto reclamizzato ‘Piano Marshall per il Mediterraneo’? Quanto è credibile la narrativa del Presidente della Commissione Europea Junker, nel suo ultimo «Discorso sullo Stato dell’Unione», il 12 settembre 2018, quando ha lanciato l’idea di realizzare una «Nuova Alleanza Europa-Africa» per creare 10 milioni di posti di lavoro nei prossimi 5 anni (contro 1 milione dei cinesi, che però sono posti di lavoro ‘veri’….) ?
Abbiamo visto come l’Europa Orientale e balcanica – mosaico di popoli, religioni ed alfabeti differenti – ha reagito alle pressioni migratorie: la costruzione di muri e fili spinati, nell’illusoria difesa di una purezza etnica che ricorda da vicino quanto la Signora Thatcher disse nelle fasi successive alla fine dell’Unione Sovietica ed al disgregamento del suo blocco: «lo scioglimento del ghiacciaio comunista mette in luce i detriti che erano stati coperti dal ghiaccio»…..
La metà orientale dell’Europa si è dimostrata perfino più impermeabile di quella occidentale ai temi della solidarietà (accoglienza, redistribuzione migranti). Senza dimenticare i quasi 3 milioni di profughi ‘ospitati’ in Turchia con contributo finanziario EU, numeri che fanno impallidire quelli in Libia. Cosa accadrebbe se Ankara decidesse di ‘aprire il rubinetto’? in quel momento la Russia rappresenterebbe ancora la priorità strategica per i Paesi di Visegrad?
È possibile che il Mediterraneo riesca a correggere lo ‘strabismo’ delle Cancellerie europee, in primis quelle dell’Europa Orientale? È possibile che il Mediterraneo torni a rivestire un ruolo che aveva perduto e che, dal Trattato di Roma del 1957 all’Unione per il Mediterraneo del 2008, non era più riuscito a ricoprire?
È possibile che l’Unione comprenda che la Storia si è rimessa in moto come aveva fatto nell’annus mirabilis 1989 e che è giunto il momento del futuro e del progetto? È possibile che sappia affrancarsi dalle percezioni post e neo-coloniali, dalla paura del fondamentalismo causata dal terrorismo, della perdita dell’identità indotta dai fenomeni migratori?
Sarà possibile, in conclusione, immaginare un ruolo per la grande regione euro-mediterranea in un mondo ormai privo di centro di gravità geostrategica, in cui non vi è più bipolarismo né unilateralismo e non ancora multilateralismo efficace, un mondo ipercomplesso a multipli livelli di civiltà nel quale sempre meno incide l’ormai evanescente dimensione transatlantica e che non si è ancora consegnato a quella euroasiatica?
Una prima risposta si avrà già con l’esito del voto europeo di maggio. Ma sarà solo la prima…..
Palermo San Vito lo Capo dice
Speriamo che possa diventare così