Lo scritto di Benedetto XVI sui mali della Chiesa e non solo, le sue riflessioni sui nostri stessi mali toccano una questione di fondo che riguarda la stessa condizione etica dell’epoca moderna: il conflitto fra una concezione ascetica del bene e una visione secolarizzata che pone dominante il piacere. Quello fra l’idea che vi siano valori indisponibili e la concezione che i valori li farebbe dipendere da una valutazione delle condizioni nelle quali ci si venga a trovare. In altre parole fra un’etica ascetica e un’etica fondata su quelle teorie probabilistiche che furono elaborate in ambito cattolico in concomitanza con l’affermazione del capitalismo.
Questo è il vero nucleo principale di tale scritto, ed è su di esso che, lasciando in secondo piano argomenti che hanno sollecitato le polemiche in atto, si deve spendere qualche riflessione aggiuntiva.
Ciò che a partire dalla fine della ricostruzione operata nel secondo dopo guerra è profondamente mutato, lo rileva Benedetto XVI con altre parole, è il rapporto fra etica comunitaria e civile (si consenta di non distinguere a vantaggio della semplicità del discorso) ed etica meramente intersoggettiva. Al primato della prima si è sostituito quello della seconda.
Se per secoli in una situazione caratterizzata dalla frammentazione politica, economica e sociale, in una situazione che con formula hobbesiana potremmo qualificare come di guerra e di lotta, l’occidente ha avuto necessità di ritrovare una certa unità sul piano etico-comunitario, segnatamente religioso e cristiano, se per un lasso di tempo durato circa cinque secoli a quella stessa unità era stato necessario ricorrere per far fronte alle lotte endemiche fra gli stati nazionali, con la grande crisi della cosiddetta guerra civile europea del novecento, tutto ciò, questo bisogno di costruire una casa comune di tipo etico-religioso, è venuto (in parte) meno.
Si è appannata la gerarchia fra ordine etico comunitario e dimensione conflittuale della realtà ‘intersoggettiva’.
Vuoi nella Res publica christiana, vuoi nell’età del predominio degli Stati nazione, le pretese etiche dei singoli, dei gruppi particolari dovevano essere subordinate a quelle superiori, tendenzialmente unitarie, di tipo religioso e civile.
Il cristianesimo ha fatto valere il principio che si dovesse subordinare al bene e al bene asceticamente inteso, al bene depurato dai propri desideri particolari, anche e soprattutto il bene più importante, ovvero la vita stessa. L’idea nazionale ha richiesto ai suoi cittadini il medesimo alto tributo. Un bene religioso, un bene civile, ma in ogni caso un bene asceticamente inteso. L’uno al prezzo del martirio, l’altro al prezzo del sacrificio per la patria comune.
Questo primato del bene rispetto a quello del piacere, questa gerarchia fra i due elementi, in occidente è venuta meno e si è progressivamente ribaltata quando si sono verificati due fatti di rilevanza generale.
Il primo consiste nel fatto che lo Stato moderno, imponendo il mercato unico, la sua spoliticizzazione, la sua organizzazione garantita dalla forza del Sovrano, ha reso meno necessaria la comunità etico-religiosa. Il secondo nel fatto che, a causa del carattere oltremodo distruttivo della guerra fra le grandi potenze, si è dovuto procedere alla subordinazione delle istanze etiche della nazione a quelle legate alla condizione particolare dei soggetti.
Al primato del bene si è così sostituito il primato del piacere. Non si è assistito, però, alla semplice sparizione del primo, tuttavia, ma alla sua subordinazione al secondo. La gerarchia della quale si è in precedenza parlato si è progressivamente ribaltata.
Di qui la presentazione del bene come piacere e di quest’ultimo come bene supremo. Di qui la sensazione di assurdità, di incomprensibilità del sacrificio, di rifiuto della guerra, di accettazione della soggezione. Di qui una certa persecuzione strisciante nei confronti di chi cerca di rivendicare beni che implichino sacrificio.
In questa situazione la reazione vuoi della Chiesa, vuoi dello Stato, è stata ed è fondamentalmente la stessa. Ambedue hanno subito e subiscono la tentazione di ritenere che la via della loro salvezza sia quella di presentarsi come momento di legittimazione del primato del piacere.
La Chiesa al di fuori dell’occidente sperimenta ancor oggi l’importanza del primato del bene e del sacrificio. In occidente ondeggia fra la riproposizione della sua funzione storica, quando ritiene che il degrado delle società occidentali abbia di nuovo ed in modo nuovo bisogno della più alta esaltazione del bene (mediante la riproposizione della parola di Cristo depurata dalle tradizioni più caduche), e la tentazione di porsi come luogo di legittimazione del primato di un piacere trasformato in bene situazionisticamente inteso. Da un lato ripropone valori non negoziabili, dall’altro lato giustifica fino a che può la ‘negoziazione’, ovvero la possibilità che il piacere si possa presentare nelle opportune situazioni come un bene.
Da un lato Francesco d’Assisi, dall’altro lato Ignazio di Loyola.
Ondeggiamento, cioè, che ha caratterizzato molti momenti della storia della Chiesa nel corso dell’età moderna anche rispetto alla concezione di una possibile riforma cattolica. Potremmo dire, tanto per estremizzare e semplificare, da un lato la Compagnia di Gesù, dall’altro lato Port-Royal, Padre Brisacier e Arnauld, Padre Paulin e Jean Racine, due concezioni, appunto, antitetiche di una possibile via della Chiesa alla modernità.
La medesima direttrice è stata a sua volta percorsa anche dallo Stato.
Anche lo Stato da un lato ha cercato di legittimare i bisogni trasvalutandoli nei diritti, ha cercato di far prevalere i valori civili su quelli meramente soggettivi. Tuttavia, soprattutto a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, indebolitasi la sua funzione storica, ha cercato di porsi come luogo di legittimazione dei bisogni più disparati, ovvero del principio del piacere; e lo ha fatto da un lato indebolendo i diritti fondamentali, dall’altro lato presentando come fondamentali i bisogni espressione della situazione particolare dei soggetti e dei gruppi. E ciò moltiplicando indefinitamente i diritti cosiddetti civili; subordinando l’etica ascetica razionalista che aveva condotto alla vittoria di Valmy, alle esigenze dei vari segmenti della società elevati, ciascuno, a bene assoluto. Con la conseguenza di elevare la stessa incompatibilità delle pretese a principio di legittimazione dello Stato. Ha affidato, cioè, alla Corte Costituzionale l’ingrato compito di ‘contemperare’ i diritti, nascondendo, però, i costi sociali ed individuali che un simile modo di procedere implicava.
Dunque, la cosiddetta sparizione dei valori dipende dal ribaltamento gerarchico che si è verificato storicamente.
Dobbiamo, perciò, interrogarci sul destino del primato del bene. Dobbiamo domandarci se esso sia segnato da un inevitabile asservimento o se abbia una qualche speranza di riemergere.
Per avviare il discorso vale la pena di porsi un semplice interrogativo. C’è qualcuno che oggi è disposto a morire per l’Europa? C’è qualcuno che è disposto a morire per il mercato e la moneta unica? C’è qualcuno disposto a pagare un prezzo per lo Stato? C’è qualcuno disposto a morire per la ragione o per le ragioni, quando riteniamo che qualsiasi cosa possa aver ragione?
La difficoltà a rispondere affermativamente a questi interrogativi, quando prendiamo in considerazione l’atteggiamento sociale prevalente, ci fa comprendere che la gerarchia oggi dominante non concede molte possibilità al suo stesso sovvertimento.
Tuttavia, il primato di ciò che ho definito sbrigativamente il bene non sembra sia morto; anche se sembra oggi rifugiarsi nelle catacombe sociali.
Resta vivo quanto meno nelle coscienze cristiane custodi dell’ascetismo e nella linfa cristiana della nostra cultura laica. Resta vivo in una secolarizzazione che si sappia distinguere dalla secolarizzazione della rinuncia alla speranza. Costituisce una possibilità di riscatto per coloro che sono in soggezione di un dominio figurato nelle sembianze di un bene. Costituisce una via di uscita che la nostra cultura nasconde e conserva come sua risorsa per sfuggire alla depressione del suolo della nostra anima.
Dunque, sacralità dell’infanzia, sacralità della donna per la donna, sacrificio dell’uomo per l’uomo. E poi ricomposizione etica della comunità di cultura e di valori, rivendicazione del lavoro inteso come ripresa costante della ricostruzione della speranza.
Dino Cofrancesco dice
Una riflessione davvero acuta e profonda.Però sostituirei al termine ‘piacere’ (il primato del piacere) il termine ‘soggettività’ (primato della soggettività). Inoltre, come mi capita spesso di far rilevare, credo che il dramma del nostro tempo stia nella perduta capacità di tenere in equilibrio (sia pur precario e mutevole)il soggettivo e il transpersonale, la comunità e la società,l’universalismo illuminista–alle radici dell’individualismo contemporaneao–e il romantico senso dell’appartenenza: o più pomposamente lo ‘spirito’ e la ‘materia’. Lo stato nazionale, in qualche modo, c’era riuscito; poi ,come giustamente ricorda Bixio, sono venute le guerre civili europee il nichilismo si è abbattuto sull’area euro-atlantica.
alberto de stefano dice
La riflessione sullo stato della Chiesa cattolica universale,sul deperimento del Suo messaggio,sulle difficolta` crescenti a diffondere il Verbo,sul procedere con sbandamenti vistosi sulla via della modernita`non dovrebbe prescindere da una analisi puntuale dello svolgimento storico del Concilio Vaticano II.Resa piu` agevole da un libro abbastanza recente,dedicato ad “una storia mai scritta” di ROBERTO DE MATTEIS”,Lindau editore.Senza indurre ad eccessive semplificazioni in una materia estremamente complessa,e` in De Matteis che viene descritto puntualmente il conflitto tra il “nuovismo” vincente e la difesa della tradizione,perdente,con la profezia del pericolo del”relativismo” formulata come ammonizione solenne,con stupefacente anticipo, da Mons.ANTONINO ROMEO.un grande della Chiesa,colpito ,in conseguenza ,dalla “damnatio memoriae” inflitta dalla corrente dominante e,per essa,dalla inflessibile,gesuitica, staliniana eradicazione dalla memoria collettiva.