Nei primi decenni del XX secolo iniziò una secolare transizione demografica, come se idealmente si dovesse transitare da un equilibrio demografico di alta natalità e alta mortalità a un analogo equilibrio di bassa natalità e bassa mortalità. Un processo che nella realtà non giunge mai a termine e nei numerosi decenni della sua durata l’entità e la composizione della popolazione muta. A cento anni di distanza, i residenti in Italia hanno cominciato a ridursi, all’inizio del 2022 sono circa 59 milioni. I residenti italiani, invece, sono in diminuzione dal 1995, oggi sono 54 milioni circa. Siamo entrati, quindi, nella fase più difficile della transizione demografica, quella in cui a essa si accompagna il declino demografico.
L’Istat ha recentemente pubblicato le nuove proiezioni della popolazione residente al 2070. A quella data, essa potrebbe collocarsi tra i 41 e i 55 milioni, con un valore mediano di 47 milioni e con tassi di dipendenza (0-14/15-64 e +65/15-64) del 22% per i minori (20% oggi) e del 63% per gli anziani (36% oggi).
Proiettare qualsiasi fenomeno cinquant’anni avanti è molto ardito, un po’ meno per le variabili demografiche per le quali l’abbrivio è molto sicuro: il percorso probabilistico delle nostre vite è sufficientemente tracciabile con le regolarità empiriche ricavate dal passato. Ad esempio, la previsione della popolazione con più di venticinque anni nel 2046 non è molto aleatoria, sono tutti già nati e i tassi di mortalità per le età oltre i 25 (salvo epidemie!) cambiano molto lentamente. L’alea nella proiezione della popolazione riguarda, quindi, il tasso di natalità e quello di immigrazione.
Il primo è in riduzione dall’inizio del ‘900 e la caduta è accelerata tra il 1965 e il 1985; accelerazione ripresa dal 2010, quando ha cominciato a sentirsi più forte sul potenziale riproduttivo l’eco delle cadute 1965-‘85. La caduta del tasso di natalità potrà arrestarsi solamente se il tasso di fecondità (numero di nati per donna in età fertile) sarà in grado di aumentare in misura tale da più che compensare la riduzione del potenziale riproduttivo. Questa è la ragione delle politiche della famiglia che si stanno mettendo in atto.
Molto più aleatoria è la proiezione del tasso migratorio che a partire dalla seconda metà degli anni novanta ha più che compensato la caduta della popolazione autoctona, ma negli ultimi anni ha perso questa capacità. Le proiezioni Istat assumono che gli immigrati annui nel corso dei prossimi decenni ritornino tra i 280 e 244mila, portando gli immigrati residenti dai cinque milioni attuali ai diciotto milioni del 2070 (valore mediano). Ovviamente, gran parte di questi col tempo acquisiranno la cittadinanza italiana. Si può comunque desumere che a quella data il 38% della popolazione è probabile che sarà di origine straniera. A questi incrementi vanno sottratti anno per anno fuoriuscite di residenti dell’ordine medio di 120 mila unità (complessivamente in 50 anni sei milioni) tra i quali la componente principale è costituita da cittadini italiani.
La previsione di 47 milioni di residenti ha, quindi, un margine di errore che va da 41 a 55 milioni fondato ampiamente sull’aleatorietà dei flussi di immigrati e, in misura minore, delle nascite.
A questo punto è legittimo chiedersi: che problema c’è se saremo probabilmente una dozzina di milioni di meno? Eravamo 41 milioni nel 1931, 44 al momento dello scoppio della seconda guerra mondiale, durante la quale la popolazione ha continuato a crescere, ma in misura molto minore, esplodendo nel 1946, e nel 1950 eravamo già diventati 47 milioni, così come si prospetta per il 2070. Va da sé che la situazione nei prossimi decenni sarà molto diversa: nel 1950, il tasso di dipendenza dei minori era il 39,8% (20, oggi e 22 fra 50 anni) e quello degli anziani il 12,5% (36, oggi e 63 nel 2070). Settant’anni fa arrivavamo a 47 milioni sull’abbrivio di una rapida crescita, fra cinquant’anni raggiungeremmo quel valore come conseguenza di una dinamica di segno opposto con la composizione della popolazione completamente rovesciata.
Il percorso che abbiamo davanti sarà, quindi, di ridimensionamento delle strutture: meno traffico, meno abitazioni nuove, più patrimonio edilizio pro capite, più famiglie senza figli e vita mediamente un po’ più lunga, meno scuole, più ospedali e centri sanitari in generale, con sviluppo progressivo dei servizi pubblici e privati per gli anziani, ecc… Vivremo quindi meglio con minore congestione e minori emissioni inquinanti? Probabilmente sì, per quanto riguarda congestione e inquinamento; l’altra faccia della medaglia sarà l’impegno che sarà richiesto a chi sarà in età di lavoro e disponibile a lavorare. Attualmente, i due terzi delle persone in età di lavoro sono disponibili a lavorare (tasso di partecipazione), il che implica che 100 lavoratori che si offrono sul mercato del lavoro devono mantenere, direttamente o indirettamente, 84 dipendenti (minori e anziani); se non dovesse mutare la disponibilità a lavorare, nel 2070 il carico per 100 lavoratori salirebbe a 118. A parità di produttività del lavoro, ciò comporterebbe un peggioramento degli standard medi di vita significativo; ne discende l’ovvia importanza degli investimenti per l’incremento della produttività del lavoro, da una parte, e, dall’altra, delle politiche che incentivino la partecipazione al lavoro.
In sintesi, data la ineludibile transizione demografica in atto, per difendere l’attuale standard di vita nei prossimi decenni si dovrà lavorare di più e in modo più produttivo, bilanciando politiche dell’immigrazione e incentivi all’aumento del tasso di fecondità.
Il tutto assieme alle politiche per le transizioni ecologica e digitale; ma, come si dice, queste sono altre storie…
Ferdinando Mach dice
Rimane sullo sfondo la questione chiave:
Se, arrivati a otto miliardi di popolazione, quest’ultima non crescesse più , la crisi dei conti pubblici sarebbe affrontabile ? No perchè ? Si come ?
Paolo Onofri dice
È probabile che nella seconda metà del secolo ci sia una svolta anche nell’andamento della popolazione mondiale (attorno ai 10 miliardi?). La crisi dei conti pubblici sarebbe il riflesso delle difficoltà della redistribuzione intergenerazionale. In astratto, a parità di produttività, vi sarebbe una riduzione dello standard di vita mondiale. In concreto, la svolta sarà scaglionata nel tempo paese per paese e il fenomeno si prolungherà nel prossimo secolo e comunque dipenderà, ovviamente, dal grado di concentrazione tra i paesi e all’interno dei singoli paesi del reddito e della ricchezza. Tensioni temperatili dall’intensità dell’aumento della produttività.
Ferdinando Mach dice
Grazie dell’attenzione e soprattutto dell’identificazione temporale , necessariamente approssimativa .
Mi sembra che tutto concorra a unire in fretta il genere umano , prima che le divisioni e le distorsioni accumulate originino effetti perversi .