Sostenute da lobby di segno opposto, molte sono state le voci pro o contro la Direttiva Copyright di recente approvazione. Non entrerò nel dibattito circa la libertà di espressione o la censura. Molto dipenderà dalle modalità di implementazione che verranno fissate nei prossimi anni.
Mi focalizzo invece sulla questione se questa direttiva sarà effettivamente benefica per l’editoria giornalistica.
Il giornalismo svolge una funzione essenziale per la società. È un lubrificante per la democrazia.
È interesse delle società che il giornalismo abbia dei meccanismi di remunerazione adeguati.
Le fonti di ricavo degli editori, da decenni, sono la vendita di copie e la pubblicità.
Oltre ai tradizionali mezzi di comunicazione, da poco più di una decina di anni, gli editori si sono ritrovati a competere per l’attenzione del lettore/utente con servizi online come Facebook, Twitter e Google. Il rapporto è conflittuale. Se da un lato è vero che questi sistemi sono utili a portare visitatori (‘traffico’) sui siti degli editori (‘properties’), è anche vero che molti utenti si accontentano dei titoli, come tradizionalmente molti utenti si accontentavano delle rassegne stampa alla radio o in TV.
Per quanto riguarda i ricavi da pubblicità, bisogna considerare che i costi dei sistemi di questi operatori sono ammortizzati su una scala globale (e quindi pressoché nulli, per utente) ed i loro costi variabili per la distribuzione sono nulli (gli atomi pesano, i bit no). Inoltre, l’attività di selezione/rassegna presenta costi variabili nulli perché non è effettuata da giornalisti ma da sistemi informatici e dagli utenti stessi. Conseguentemente, le internet companies possono permettersi di non fissare il costo minimo della pubblicità, non avendo costi variabili/semivariabili da coprire come ad esempio la carta, la distribuzione, la vendita, ecc. Il prezzo della pubblicità è determinato da un’asta ovvero il pallino della formazione del prezzo si sposta dal’offerta alla domanda. Questo trascina verso il basso il prezzo della pubblicità online. Questo calo si riflette anche offline, dato che ciò che interessa all’inserzionista è raggiungere l’utente e poco importa se con atomi o con bit. Conseguentemente tutto il mercato della pubblicità degli editori si comprime.
Per quanto riguarda la circulation, la grande disponibilità ed immediatezza del contenuto online propone al lettore/utente una infinità di alternative gratuite per gli stessi motivi sopra riportati. Thinktank, agenzie stampa, personalità, ecc. producono contenuti e notizie gratuitamente che raggiungono i lettori/utenti per il tramite di una intermediazione algoritmica con costi variabili nulli che si contrappone all’attività di intermediazione di tali notizie ed opinioni effettuata dagli editori tradizionali. A causa di questa vastissima disponibilità di contenuti gratuiti, si contrae anche la disponibilità degli utenti a pagare, determinando una compressione dei ricavi da circulation.
Per questa ragione i ‘paywall’, ovvero le versioni premium dei siti editoriali, a meno di non avere un target mondiale, sono scarsamente efficaci per alimentare i ricavi da circulation: sono acquistati solo dal 2-3% degli utenti e per importi marginali rispetto ad un abbonamento fisico tradizionale.
Questa la situazione in cui si inserisce la Direttiva UE sul copyright che nel testo esplicativo afferma dei princìpi meritevoli, ma che difficilmente avranno un impatto reale sulla sostenibilità dell’editoria.
Molti giornalisti sono convinti che grazie all’art. 11 della direttiva finalmente potranno passare all’incasso di quota parte dei grandi utili fatti dalle multinazionali over-the-top e risolvere parte dei problemi. Ma essi godono di tali ricavi perché monetizzano miliardi di utenti. Il margine per utente è molto contenuto. Secondo gli ultimi dati disponibili, il primo margine di Facebook in Europa, per utente, è 1,3 euro al mese, quello di Twitter solo 10 centesimi. Una previsione simile a quella della direttiva, che rende possibile agli editori ed alle internet companies raggiungere accordi sulla remunerazione dei link, è già stata approvata in Germania nel 2012. È nata una ‘SIAE dei giornali’ che aveva richiesto un compenso pari all’11%, poi, di fronte al rifiuto da parte degli operatori online di scendere a compromessi, è sceso al 6% e poi il confronto si è trasferito in sedi giudiziarie. Ma comunque stiamo parlando di importi veramente minimi.
Gli editori replicano che tali importi minimi sono legati al mercato per come si è sviluppato con le regole attuali, ma che cambierà per effetto della direttiva, facendo aumentare il valore dei contenuti e quindi il prezzo pagato dagli utenti e/o il prezzo della pubblicità pagato dagli inserzionisti.
Anche qui l’unica esperienza sperimentale contraddice questa ipotesi. In Spagna è attiva una legge che obbliga Google News (ed equivalenti) a stipulare una licenza e pagare un diritto agli editori. Google, per ragioni analoghe a quelle in Germania, non si è accordata con gli editori ed ha chiuso il servizio News. Nonostante non ci sia quindi una offerta di aggregazione di notizie online, essendo il mercato vergine, ad anni di distanza non esiste nemmeno un operatore che faccia tale servizio facendo pagare maggiormente gli inserzionisti pubblicitari o facendo un servizio a pagamento per gli utenti. Anzi, sono scomparse le poche startup che esistevano prima della legge. Il fatto è, di nuovo, che per quanto riguarda il pagamento da parte dell’utente, esiste una ampia scelta di fonti gratuite e, per quanto riguarda la pubblicità, l’inserzionista ha molti punti di contatto con il suo target a costi inferiori è non è disponibile a pagare un premium per esporre la pubblicità su siti di notizie editoriali. Inoltre, in Spagna non vi è alcun segno che la non esistenza di aggregatori di notizie determini un vantaggio per gli editori in termini di traffico e di ricavi diretti; anzi, le prime evidenze erano negative (-16% il traffico, -7Meur i ricavi).
Questa promessa – pur accattivante – dell’art. 11 che toglie soldi alle internet companies a vantaggio dell’editoria giornalistica rischia non poco di assomigliare alla promessa dei 350 milioni di sterline che sarebbero stati tolti alla cattiva Europa a vantaggio del sistema sanitario inglese.
Quindi, che fare?
Non esiste ad oggi alcuna idea risolutiva.
Certamente nella politica si è sviluppata una attenzione in merito alla rilevanza del ruolo di una editoria sana per un buon funzionamento democratico. Questa attenzione forse avrebbe potuta essere capitalizzata dall’editoria reclamando interventi per aumentare il proprio campo di gioco non limitandosi al perimetro attuale.
I social network basano la loro crescita esponenziale su effetti rete e lockin: se vogliamo comunicare online con qualcuno, andiamo dove sono tutti; una volta che ci siamo anche noi, non possiamo più uscirne senza perdere la nostra possibilità di comunicare.
Questo è vero online perché i servizi sono chiusi, non inter-operano con servizi di altri, limitando la contendibilità degli utenti. La telefonia, a differenza dei social network, è un mercato competitivo in quanto l’utente può scegliere di spostarsi da un operatore ad un altro senza perdere la possibilità di comunicare con i suoi interlocutori. L’utente è libero di scegliere e quindi contendibile da chi gli fa l’offerta migliore. Viva la concorrenza.
Tecnicamente questa libertà di movimento dell’utente sarebbe possibile anche con i social network (e con i network di pubblicità online) ma le norme oggi non lo impongono e le internet companies si badano bene dal consentirlo, tenendo i loro utenti stretti all’interno del loro recinto.
Forse gli editori avrebbero potuto reclamare un diritto alla interoperabilità con i social network: la possibilità per l’utente di scegliere di usare come ambiente di interazione le pagine degli editori senza perdere la possibilità di comunicare con gli altri utenti del social network
È facile immaginarsi, ad esempio una App di messaggistica de «Il Foglio» con, unitamente ai messaggi scambiabili con Whatsapp, le principali notizie del momento.
Gli editori avrebbero potuto fare leva sui propri contenuti e servizi per attrarre e trattenere gli utenti, per imporsi in un ruolo preminente nella monetizzazione della loro attenzione, ai vertici della catena alimentare, gestendo il cliente e non invece un ruolo subalterno investendo in una link tax che non sarà risolutiva.
Avrebbero potuto assumere un atteggiamento meno rinunciatario, giocare in attacco per ottenere norme che creassero nuovi spazi di mercato, non in difesa per inseguire l’idea di dividersi minime fettine delle torte esistenti.
Però questa è la direttiva ormai approvata e per molti anni sarà difficile tornarci su. Forse, è una occasione mancata.
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