La storia degli Stati Uniti d’America è caratterizzata da profondi conflitti sociali che, in alcuni casi, sono sfociati in una vera e propria guerra civile. Non ci deve, dunque, meravigliare il conflitto montante che si è manifestato con tutta la sua forza in occasione delle ultime elezioni del Presidente dell’Unione.
Molto si è discusso in questi ultimi giorni e varie sono state le interpretazioni delle ragioni dei conflitti che sono ultimamente insorti. Spesso, però, le discussioni si sono focalizzate su aspetti particolari, che a mio parere hanno finito per celare delle trasformazioni per così dire più profonde, una fra le quali sembra particolarmente significativa. Si tratta dell’emergere di una contrapposizione fra chi vuole subordinare lo Stato e chi intende farsi politicamente proteggere da esso.
In via semplificativa, si potrebbe individuare nei primi gli Stati delle due coste, nei secondi quelli dei territori interni. I primi, egemonizzati dai nuovi detentori del potere digitale, i secondi decisi a resistere, riformulando lo stile della Presidenza nel tentativo di ridare voce allo Stato.
Non vi è dubbio che questa ora presentata sia una radicale semplificazione. Si vorrà, tuttavia, avere la pazienza di accettarla transitoriamente, perché ci potrebbe essere utile per la comprensione di una trasformazione che sta avvenendo nella struttura del potere sovrano.
Sempre semplificando, si potrebbe dire che si sta imponendo un conflitto fra i detentori privati del dominio digitale, sempre più dotati di un potere direttamente ‘universale’ e privo delle limitazioni (delle frontiere), e coloro che, per quanto provvisti di capacità di dominio, tuttavia gestiscono un potere strutturalmente limitato. Limitato da due fatti: dal fatto che esso si fonda sul controllo di un territorio ‘finito’, il territorio dello Stato, e dall’aver accettato i confini posti dalle regole della concorrenza.
Queste due limitazioni i detentori del potere digitale non le subiscono, perché il potere ‘universale’, direttamente imputabile ad essi in quanto privati, sopravanza quello semmai internazionale dello Stato, dal momento che questo non è universale, ma costantemente mediato dagli altri Stati. E di nuovo sopravanza quello tradizionale, dal momento che anche quello esercitato all’interno dello Stato si trasforma in momento della stessa loro universalità. In altri termini, il mercato ‘interno’ digitale da un lato non è più realmente interno, essendo divenuto momento di quello universale, dall’altro, per questa stessa caratteristica, ha finito per eludere le stesse regole della concorrenza, dando luogo ad un monopolio niente affatto naturale e semmai artificiale.
Diversamente, nel caso della telefonia fissa, se talvolta si è affermato un monopolio, tuttavia esso non è stato attribuito originariamente e direttamente ad un privato; è stato configurato in forma pubblica e attribuito al potere altrettanto pubblico della nazione.
La conseguenza di tutto ciò consiste in qualcosa che sembra assolutamente recente ed ancora inesplorato, mentre invece costituisce un tipo di relazione che affonda le sue radici nel potere tradizionale.
Riemerge e tende a riaffermarsi la dimensione pubblica e sovrana del potere privato, ovvero del dominium, della sovranità come qualificazione della eminenza di un soggetto ‘particolare’.
Certo, questa affermazione potrebbe sembrare impropria, dal momento che il dominio, inteso in senso tradizionale e feudale, essendo tipico della società dell’antico regime, mal si attaglierebbe alla società post-industriale fondata sullo scambio e la produzione di beni artificiali. Essa, tuttavia, mostra di avere senz’altro le sue valide ragioni, quando si consideri che i due tipi di società, basate l’una sulla occupazione (intesa come modo di acquisto originario del dominio), l’altra sullo scambio, presentano relazioni, di sviluppo del potere, analoghe.
Così come nella società tradizionale, grazie all’occupazione, si realizza una esclusione dell’altro che dà luogo non solo e non tanto all’allontanamento dalla fruizione del bene (della terra da intendersi come mezzo eminente di produzione), quanto, soprattutto, alla subordinazione altrui e alla gerarchizzazione del potere, allo stesso modo nella società di scambio l’eguaglianza delle posizioni è solo virtuale, dal momento che il risultato dello scambio incide diversamente sulle posizioni patrimoniali dei soggetti (dello scambio), dando luogo ad una subordinazione economica che si risolve nella gerarchizzazione rispetto alla capacità di dominio sul capitale.
Dunque, la differenza nei due contesti sociali sta solo nel fatto che mentre nella società feudale il mezzo di produzione è rigido, essendo la terra limitata (rispetto agli appetiti dei soggetti della società) né liberamente producibile, nella società di scambio il mezzo di produzione fondamentale è costituito da elementi in continua trasformazione grazie alla tecnica e ai suoi presupposti scientifici.
Non a caso oggi emerge sempre più potentemente una nuova politica condivisa: che la competizione e lo scambio debbano investire anche le università e in generale i luoghi della produzione scientifica. Non a caso chi vuole dominare, vuoi i privati vuoi gli Stati come sistemi di amministrazione della scienza e della tecnologia per conto dei primi, hanno chiaro che il dominio sovrano lo si consegue controllando lo sviluppo di quei due elementi.
Dunque, l’unica differenza fra i due tipi di società non è nella produzione di processi di gerarchizzazione, ma nella minore e maggiore possibilità di trasformazione e miglioramento dei fondamentali mezzi di produzione. Minore nella società feudale, maggiore nella società nella quale viviamo.
Si potrebbe dire che oggi vince chi è capace di ‘occupare’ meglio il mezzo della produzione scientifica e tecnologica.
Con il che si intende far comprendere che anche nella nostra società i rapporti di sovranità legati allo sviluppo delle relazioni fra privati non sono stati aboliti solo perché abbiamo abbattuto la società dell’antico regime e abbiamo instaurato la società di scambio.
La conclusione è che la sovranità di natura privatistica opera ancor oggi, e in certe condizioni, quali quelle che sono state indicate in apertura di queste riflessioni, può pienamente riaffermarsi a scapito di quella pubblica dello Stato.
Certo, non retrocedendo verso un mondo oramai tramontato, ma avanzando verso nuove fasi dello sviluppo della storia della società; non assumendo una configurazione interindividuale, ma una forma societaria secondo la quale il dominio viene perseguito nella lotta o eventualmente nella meno cruenta competizione fra gruppi di potere di natura privata.
Tuttavia, questo processo lo si avverte non solo negli Stati Uniti, ma in forme diverse anche in altri importanti contesti politici: nell’Unione Europea ed in Cina.
Nella Repubblica popolare cinese in forma direi compiuta, dal momento che il Partito (una istituzione eminentemente privata, esponenziale di un gruppo altrettanto privato), dopo aver radicalmente impedito che potesse sorgere uno Stato, si è consolidato costituendosi come monarchia elettiva (come si sa eminente forma di ‘Stato’ esponenziale del dominio privato). Nella nostra Europa in forma attenuata, ovvero sul piano della amministrazione e del lobbying esercitato rispetto alla formazione delle direttive. In forma attenuata perché le decisioni, dovendo essere prese con la mediazione degli Stati, necessariamente debbono trascendere in una qualche misura i tentativi di controllo diretto della sovranità da parte di un qualche gruppo privato egemone.
E noi? E da noi? Nel nostro piccolo, nel giro di due decenni abbiamo potuto contare due grandi partiti azienda e il tentativo renziano di trasformare definitivamente il suo, facendogli assumere, in modo maggiormente deciso di quanto non sia oggi, la forma di ente esponenziale più di gruppi di interesse, che di un progetto universalistico di società.
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