Nel suo denso e meditato intervento su ParadoxaForum, L’estradizione e il senso della giustizia (10 giugno u.s.), Umberto Curi, parlando dei dieci esponenti della lotta armata da tempo riparati a Parigi, dei quali a nome del governo Draghi ha chiesto l’estradizione, ha scritto: «Per ciascuno di essi, quali che siano i reati commessi, e quale che ne sia stata la gravità, è evidente che l’infliggere una pena non potrebbe cancellare o compensare la sofferenza inflitta ai familiari delle vittime, e finirebbe semplicemente per aggiungere dolore a dolore. Presumibilmente mossa dalla consapevolezza dei limiti ineliminabili della concezione giuridica della pena, nel corso di un’intervista Marta Cartabia, la Ministra della giustizia, ha evocato quello che si sta affermando come paradigma alternativo, rispetto ai modelli tradizionali di pena, vale a dire la giustizia riparativa. Si tratta di attivare un complesso percorso di riconciliazione fra il reo e la vittima (o i suoi congiunti), sostituendo all’astratta inflessibilità della pena la pratica del sincero riconoscimento delle proprie colpe e della riparazione del male inflitto. Affrontando insomma, per dirla con una formula, il male (del reato) col bene (della riconciliazione)». Si tratta, a suo avviso, di un itinerario di mutuo riconoscimento che dovrebbe spezzare la logica perversa della vendetta.
Capisco i valori del tutto rispettabili che ispirano il discorso di Umberto Curi – uno studioso che dopo la prima formazione cattolica (Carlo Giacon, Marino Gentile etc.) si è poi avvicinato al marxismo, ad Heidegger e a Massimo Cacciari – ma avverto nelle sue parole la dimenticanza dell’aurea massima di Publio Terenzio Afro: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto». Perché dovremmo essere tutti d’accordo nel condannare «la logica perversa della vendetta?» Nel film di Mario Monicelli, Un borghese piccolo piccolo (1977), tratto dal romanzo di Vincenzo Cerami, il protagonista (interpretato da un grande Alberto Sordi) si vendica ferocemente del terrorista che gli ha ammazzato l’adorato figlio unico. In questo caso, mi riesce difficile pensare a codici morali che possano giustificare non l’uccisione ma la tortura inflitta all’omicida.
Se, però, si guarda al ‘processo del secolo’, quello del 1961 a Otto Adolf Eichmann, il rapimento del ragioniere della morte in Argentina, la sua chiamata in giudizio a Gerusalemme, la sentenza capitale, la cremazione e la dispersione delle ceneri nel Mar Mediterraneo al di fuori delle acque territoriali israeliane possono far provare un profondo senso di sollievo (che certo non riporta in vita i milioni di morti nei Lager). Il male, Eichmann, è stato cancellato dal mondo e «un complesso percorso di riconciliazione fra il reo e la vittima», tra l’SS Obersturmbannführer e qualche sopravvissuto di Auschwitz, può essere solo il parto di un buonismo estremo sconfinante nella demenza.
Curi stigmatizza, senza mezzi termini, la «convinzione secondo la quale la pena possa funzionare come condotta di annullamento, come qualcosa che è in grado di ‘lavare’ la colpa, ripristinando con ciò l’ordine che la colpa ha violato. Insomma, come ha rilevato René Girard, alla base della concezione retributiva della pena, per quanto dissimulato, resta il meccanismo della vendetta, la logica appena un po’ civilizzata del sangue chiama sangue. E resta soprattutto un’idea di fondo, e cioè quella di far corrispondere al male della colpa il male della pena. Come se l’afflizione, in quanto tale, potesse rimediare al dolore della colpa».
Con tutto il rispetto per il geniale Girard, non riesco a capire: la pena certo non ripristina l’ordine violato ma proprio come l’amputazione di un arto in cancrena non comporta che il corpo operato sia quello di prima. Il mondo in nessun caso può essere lo stesso se milioni di esseri umani – innocenti o colpevoli – vengono privati di «questa bella d’erbe famiglia e d’animali». Ma come si fa a ignorare la soddisfazione dei familiari delle vittime (quante volte l’abbiamo vista in TV) dinanzi a sentenze esemplari di condanna degli assassini dei loro congiunti?
Se uno uccidesse mio figlio – non chiamandomi Karol Wojtyla e non essendoci nessun Mehemet Ali Agca sul mio cammino – non avrei nessuna voglia di incontrare l’omicida anche se – in mancanza della pena di morte alla quale non sono contrario per principio: non lo erano Immanuel Kant e Vittorio Mathieu – gli augurerei una lunghissima degenza carceraria (beninteso, in celle non degradanti per la dignità umana, da rispettare anche nel peggiore degli uomini).
Diceva il compianto Mario Stoppino – a mio avviso, il maggiore scienziato politico italiano degli ultimi decenni del XX secolo – che bisogna recuperare il valore morale (ed estetico) della vendetta. Aveva capito che il buonismo etico-giudiziario, condito di perdonismo (che neppure a Curi piace), ci avrebbe resi più ‘civili’ ma assai meno ‘umani’. Se non fosse morto vent’anni fa, quanti ‘materiali’ avrebbe trovato a convalida della sua intuizione!
Francesco Pertici dice
Oltretutto bisognerebbe dire che i terroristi imboscati in Francia non si siano conformati nemmeno all’idea di “giustizia riparativa” della Cartabia. Non hanno chiesto perdono, non hanno cercato la riconciliazione con i parenti delle vittime, ma semplicemente si aspettano che si metta una pietra sopra il passato.
Il ragionamento di Cofrancesco, però, non convince fino in fondo: la vendetta è l’altro lato della medaglia della “giustizia riparativa”: entrambe rimangono confinate in una dimensione “privata”, nel rapporto tra vittima e carnefice.
La giustizia intesa nel senso classico del termine (quello che a mio avviso deve rimanere valido) invece fa entrare un delitto in una dimensione pubblica ed è lì che deve stare in un paese civile.
E’ la società, la comunità che punisce chi infrange il patto sociale.
La giustificazione della necessaria punizione per i terroristi sta tutta lì. I delitti commessi hanno provocato una tale rottura del patto sociale da rendere quei crimini irreparabili, anche a distanza di 40 o 50 anni. Chi li ha commessi non può continuare a far parte della comunità o vi può essere riammesso solo dopo aver scontato la sua pena.
Dino Cofrancesco dice
Francesco Pertici ha ragione.” La giustizia intesa nel senso classico del termine (quello che deve rimanere valido, secondo me) invece fa entrare un delitto in una dimensione pubblica ed è lì che deve stare in un paese civile”. E tuttavia l’umano precede il sociale, lo stato naturale precede il pactum societatis. Indipendentemente dal tribunale che riconosce e punisce i reati, l’offesa resta un’offesa e la reazione appassionata e violenta, che essa attiva, è iscritta nell’umano.La sublimazione della vendetta, la rinuncia a farsi giustizia da sé è ciò che distingue il barbaro dal civile ma—stiamo attenti!—di sublimazione in sublimazione, si rischia di essiccare qualcosa dentro di noi, di allontanarci troppo dalla natura, di farci vivere in una società ‘nominalista’ (in senso medievale) in cui è ‘reato ciò che la società definisce come tale’. Chi dicesse “sono vittima di un’ingiustizia ‘reale’ anche se nessun giudice ne ha voluto prendere atto e, pertanto, la legge sono io, la giustizia sono io, il boia sono io” non può certo avere carta bianca sul piano giuridico e politico ma negare il valore ‘etico’ della sua passione vendicativa significa peccare contro lo ‘Spirito dell’Occidente’, ritenere che nel giuridico si risolva tutto l’etico, dimenticare che la tragicità della condizione umana sta nel fatto che morale, diritto, scienza, religione, economia, politica sono valori diversi e spesso conflittuali (la grande lezione di Isaiah Berlin!). Sono le torture inflitte al terrorista che gli ha ucciso il figlio, a non farci solidarizzare col borghese piccolo piccolo’ non l’esecuzione in sé (anche se giustamente consideriamo quest’ultima un gravissimo reato da deferire alla magistratura).
Le leggi di Creonte vanno sempre fatte rispettare ma Antigone ci ricorda che, accanto alle leggi, c’è qualcos’altro. ”Occhio per occhio, dente per dente” la terribile legge del taglione non si colloca in una dimensione privata ma in una dimensione universale che non è quella della ‘societas’ e del suo ‘jus’ giacché la complessità del mondo non si lascia esaurire nella logica binaria pubblico/privato. Liberiamoci dai lumi…che ci fanno vedere un mondo in bianco e nero.