Il rapporto fra invecchiamento e salute non è un problema esclusivamente demografico e sanitario, ma anche e sempre più economico, etico, sociale e culturale. Non si tratta di un elenco di priorità elencate in ordine decrescente, ma di un complesso insieme di fattori dalla cui interazione dipende sempre più la sostenibilità del welfare universale, che si ritrova oggi nella difficile condizione di fare fronte a una quantità crescente di pretese da parte di una quantità crescente di persone.
Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra, la sua vita media ha raggiunto per centinaia di migliaia di anni il limite massimo dei trent’anni. Recenti ricerche sostengono che i sudditi dell’impero romano raramente superassero i ventotto. In pieno XVI secolo, Montaigne scriveva che «morir di vecchiaia è morte rara, singolare e straordinaria, e tanto meno naturale delle altre: è l’ultima specie di morte, la più difficile». Circa cinquecento anni dopo e contrariamente alle sue pur legittime considerazioni, nel 2014, l’aspettativa di vita ha raggiunto gli 83 anni in Giappone, mentre in Europa e in Italia, nell’arco di soli 50 anni, ne sono stati rispettivamente guadagnati una media di 9 e 14.
Oggi, in un mondo in cui la durata della vita media sta ampiamente superando gli 80 anni, è dunque opportuno rendersi conto che abbiamo a che fare con un fenomeno che rappresenta molto più l’eccezione che la regola. Alcuni medici sostengono addirittura che quando studiamo l’invecchiamento quello che cerchiamo di capire non è un processo naturale, ma un fenomeno bizzarro e privo di precedenti nella storia della nostra specie. Il rapido aumento dell’aspettativa di vita è stato del resto reso possibile da un fenomeno già di per sé bizzarro e privo di precedenti nella storia naturale: l’epidemia di salute prodotta dagli ultimi due secoli di vertiginoso sviluppo scientifico-tecnologico e di capillare diffusione delle pratiche di igiene pubblica. Ciò ha infatti consentito alla medicina, come mai prima, di prevenire e contenere gli effetti degenerativi prodotti sia dalla malattia che dal naturale deterioramento del nostro corpo.
L’aumento della durata media della vita, però, raramente ha coinciso con un aumento paragonabile in condizioni di salute. L’invecchiamento favorisce infatti la tendenza a contrarre una o più patologie, generalmente croniche, e associate a fenomeni di fragilità sociosanitaria quali la mancanza di autonomia, la dipendenza, l’isolamento sociale e l’istituzionalizzazione non appropriata: fenomeni dunque che mettono seriamente in discussione la qualità della vita individuale. Le previsioni demografiche ed epidemiologiche ci dicono che la popolazione dei paesi industrializzati sarà in futuro sempre più composta da persone anziane e al contempo malate e disabili, i cui bisogni di salute richiederanno interventi di crescente complessità assistenziale ad alto impatto sociale ed economico.
Il fenomeno è spiegato in modo molto efficace dalla teoria economica dell’utilità marginale decrescente, secondo la quale il livello di soddisfazione prodotto dal consumo di dosi dello stesso bene tende progressivamente a ridursi: la prima pagnotta addentata procurerà all’uomo affamato grande piacere, a prescindere dalla sua qualità; ma le dosi successive di pane, benché di qualità sempre più prelibata, tenderanno a procurare in lui livelli di soddisfazione decrescenti, dovuti al progressivo appagamento del bisogno, fino a giungere alla completa sazietà. La stessa legge è generalmente sfruttata per illustrare la natura di numerose attività umane, comprese quelle di tutela della salute. Come dimostrano recenti studi effettuati dalla Banca Mondiale, il contributo marginale prodotto oggi da una spesa sanitaria in continua crescita arreca nei paesi industrializzati benefici di salute sempre più modesti. Ciò significa che se nei paesi poveri o in via di sviluppo un semplice farmaco antibiotico dal costo di pochi euro può generare enormi guadagni in termini di salute, come salvare la vita di un paziente affetto da malattia infettiva, viceversa nei paesi industrializzati ogni minimo incremento dell’aspettativa media di vita in salute necessita di enormi investimenti in servizi assistenziali, di carattere sia sociale che sanitario.
In altri termini, maggiore è il livello di salute che possiamo vantare, maggiore è il livello di salute a cui vogliamo ambire, ma i margini di miglioramento a disposizione diventano via via più sottili e onerosi. I risultati prodotti da recenti studi di Regione Lombardia sono utili a farsi una chiara idea in proposito: i pazienti cronici rappresentano il 30% degli assistiti sull’intero territorio ma consumano il 70% delle risorse sanitarie complessive, con un notevole picco che si presenta nell’età compresa fra i 70 e i 74 anni; ciascuno di questi pazienti consuma in un anno cinque volte tanto il resto dei cittadini sani o affetti da altre patologie, con una media pro-capite che varia rispettivamente dai 2.583 € ai 464; la spesa pro-capite a carico del SSR aumenta in modo proporzionale rispetto al numero di patologie croniche da cui è contemporaneamente affetto il singolo paziente, che cresce a sua volta in modo significativo al pari dell’incremento dell’età. La rilevanza di questi dati, che si potrebbero incrementare, ha portato la Regione a rivedere i propri servizi di offerta in funzione di una migliore presa in carico dei bisogni del paziente anziano, cronico e fragile, da cui si attendono benefici sia in termini di qualità delle cure a lungo termine, che di risparmi sui costi del sistema complessivo.
Poste queste premesse, la sostenibilità del welfare viene posta sotto pressione dall’invecchiamento della popolazione previsto per i prossimi decenni, laddove in Italia si è calcolato che nel 2010 la spesa farmaceutica pro-capite di un assistito di età maggiore ai 75 anni ammontava a undici volte quella di una persona fra i 25 e i 34; nel 2015 la quota di anziani italiani superava la media europea dell’Unione, con la sola Germania davanti; e tale quota aumenterà fino a raggiungere nel 2032 il 27,6% della popolazione.
Un welfare insostenibile è contemporaneamente un welfare iniquo, perché laddove non arriva la copertura pubblica devono arrivare le risorse a disposizione dei malati o delle loro famiglie. Ciò tende a colpire maggiormente le categorie più fragili della popolazione, fra cui rientrano in primo luogo gli stessi anziani, alle cui difficoltà di natura anagrafica e biologica si aggiungono la conseguente difficoltà a produrre profitto, la crisi del sistema pensionistico e l’erosione delle relazioni sociali, nella misura in cui la famiglia, in Italia, si è tradizionalmente mostrata una risorsa fondamentale per arrivare là dove non vi riusciva il welfare, in termini sia di supporto economico, che psico-affettivo, che funzionale.
Come confermano numerosi studi condotti a livello nazionale, abbandonare la tutela della salute alla capacità da parte del singolo di farsene carico comporta crescenti fenomeni di impoverimento, di rinuncia alle cure o di perdita del posto di lavoro, specialmente nel caso dei parenti costretti a farsi carico in prima persona dei bisogni assistenziali più quotidiani ed elementari. Nel quadro di un ragionamento sistematico, è di fondamentale importanza sottolineare che la capacità da parte del paziente di avvalersi delle risorse individuali non rappresenta solo una lacuna della copertura assistenziale pubblica, ma ancor più una latente minaccia nei confronti della sua sostenibilità: si tratta del circolo vizioso per cui un welfare che (pur senza volerlo) risparmia sulla tutela continuativa, preventiva e proattiva dei bisogni assistenziali di media o bassa intensità, si ritrova a farsi carico dei fenomeni ben più onerosi derivanti dalla loro acutizzazione, con le conseguenze che ciò comporta in termini di aggravamento delle condizioni di salute, dipendenza dalle istituzioni ed erogazione di trattamenti ad alta intensità dal punto di vista specialistico e tecnologico.
Tutto ciò si riversa a sua volta nell’aumento dei fenomeni di istituzionalizzazione inappropriata o evitabile che determinano un’importante perdita nella qualità della vita del singolo. È a questo livello, per rifarmi all’efficace terminologia introdotta dal contributo di apertura, che la vecchiaia cede inesorabilmente il passo all’invecchiamento. L’anziano non rappresenta più la persona al centro del proprio progetto di vita, che mantiene una posizione di apertura verso il mondo, nutrendosi di valori, desideri e affetti in continua evoluzione, ma un fenomeno patologico al centro di un processo di medicalizzazione, in cui l’irriducibile complessità individuale è sacrificata a forme di supporto standardizzate e impersonali che assumono spesso la forma dell’accanimento assistenziale o terapeutico, il cui obiettivo non è garantire la massima qualità della vita possibile date le condizioni psicofisiche in atto, ma ritardare il più possibile il fenomeno della morte, a prescindere dagli effetti che ciò può comportare in termini di alienazione – e dunque di annullamento – della vita stessa (fin da subito).
Come scegliere la propria vita fino in fondo è il sottotitolo di un meraviglioso libro intitolato Essere mortale, in cui un medico americano di origini indiane, Atul Gawande, racconta della complicata gestione della malattia degenerativa che affligge da tempo il proprio padre anziano, davanti alla quale, ad un certo punto, si pone il più classico dei bivi: proseguire in modo ostinato le cure, pur consapevoli del fatto che ciò avrebbe prodotto più sofferenze che benefici, oppure interromperle e godere al meglio possibile di quel poco che la vita ancora gli avrebbe concesso? A partire dalla sua lunga esperienza di medico, Gawande chiede al padre quali siano le cose per cui ritiene che la vita sia ancora degna di essere vissuta, in modo tale da supportare la sua decisione verso l’opzione più compatibile. Aspettandosi una riflessione sui massimi sistemi o una serie di domande relative alla tutela delle funzioni biomeccaniche fondamentali, l’autore si sente dire dal padre, con grande semplicità, che la sua vita sarebbe stata bella fin quando avrebbe potuto assistere a una partita di baseball gustando un gelato al cioccolato seduto sul proprio divano di casa.
Non anticipo gli sviluppi della vicenda, perché consiglio caldamente di leggere il libro a tutti coloro che sono interessati al tema dell’invecchiamento e delle sue priorità assistenziali. Tuttavia l’aneddoto è utile a illustrare quanto l’ipotesi dell’istituzionalizzazione e della medicalizzazione a tutti i costi non solo mettano sempre più a dura prova la sostenibilità del nostro welfare, che si ritrova ad avere meno risorse per il trattamento di patologie e pazienti dalla prognosi più felice; ma che non sia necessariamente nemmeno la strada ideale dal punto di vista del diretto interessato, in quanto rivolta ad accelerare la vecchiaia – intesa come condizione di fragilità – senza realmente valorizzare l’invecchiamento – inteso come l’apertura ai desideri e alle priorità che rendono la vita un percorso di continua evoluzione.
Accettare il corso naturale degli eventi o intervenire in sua modifica rappresentano scelte troppo radicate nell’esperienza individuale per essere poste a fondamento di linee guida oggettive per la pratica clinica e per le decisioni allocative in sanità. Tuttavia risposte come quella del padre di Gawande meritano maggiore attenzione e diffusione, perché testimoniano della possibilità di decidere con coraggio della propria vita in una fase storica e culturale caratterizzata dalla necessità di richiamare con chiarezza le priorità della medicina e del welfare posto in suo supporto. Da questo punto di vista, la vecchiaia non deve essere evitata come un tabù che si caccia dalla porta per poi vederlo rientrare dalla finestra, ma deve essere vissuta come un’esperienza che non preclude la possibilità di perseguire i propri desideri e i propri valori, compensando i limiti posti dalla biologia con la voglia di restare giovani e scegliere la propria vita fino all’ultimo momento.
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