In una giornata di primavera di trentatré anni fa, il 16 aprile 1988, le Brigate rosse assassinavano Roberto Ruffilli, Professore della Facoltà di Scienze politiche di Bologna, Senatore della Democrazia Cristiana e membro della Commissione parlamentare Bozzi per le riforme istituzionali.
Il comunicato dei terroristi in cui veniva rivendicata la sua uccisione, si apriva con affermazioni che ancora oggi fanno rabbrividire nella loro spietata lucidità. Vi si affermava di aver «giustiziato» Roberto Ruffilli in quanto «uno dei migliori quadri politici della DC, l’uomo chiave del rinnovamento» e di un progetto che aspirava ad aprire una nuova fase costituente e la riformulazione delle regole del gioco, nell’ambito di un processo di razionalizzazione dei poteri dello Stato. Inoltre, l’accusa delle accuse, che veniva posta in risalto dai suoi assassini, era quella secondo la quale Ruffilli aveva saputo «concretamente ricucire», intorno a questo progetto, «tutto l’arco delle forze politiche, comprese le opposizioni istituzionali».
Ecco disegnato il profilo dell’uomo che le Brigate rosse avevano individuato come nemico assoluto da colpire a morte: Ruffilli, esponente delle riforme e del rinnovamento, capace di chiamare a raccolta forze politiche diverse, di costruire un corretto dialogo fra queste ultime, nel segno dei nuovi compiti spettanti allo Stato e alle istituzioni.
Quando Ruffilli fu assassinato, aveva appena dato alle stampe il suo ultimo volume, dal titolo Il cittadino come arbitro (1988), volume che aveva curato insieme con Piero Alberto Capotosti. Basterebbe rileggerne alcune pagine per avere idea della linea di continuità che lega la storia di ieri a quella del presente e i rischi sui quali, fin da allora, con grande lucidità, Ruffilli richiamava l’attenzione a proposito del sistema politico di casa nostra, a partire dalla mera contrapposizione che già si stava profilando all’orizzonte della democrazia diretta e referendaria con la democrazia rappresentativa e parlamentare.
Una pericolosa, probabile deriva era in tal senso in agguato: quella di possibili tentazioni verso nuove forme di qualunquismo e di delega plebiscitaria. La scommessa in campo, per Ruffilli, è di riuscire a costruire nel nostro paese una democrazia matura, di contro a possibili tentazioni verso forme di democrazia plebiscitaria, disponibili «a forme di delega a personalità e istituzioni più o meno carismatiche» che nulla hanno a che vedere con l’aspirazione dei cittadini a giocare davvero un ruolo attivo sulla scena politica.
Le righe conclusive della Introduzione, lette oggi, in considerazione di ciò che non seguirà in Italia, suonano davvero come il naufragio, negli anni a venire, di una speranza progettuale che Ruffilli esprimeva chiamando tutti (partiti, istituzioni, cittadini) a fare la loro parte, invitando a trovare punti di accordo fra forze di governo e di opposizione su priorità e modalità complessive del processo riformatore, ricercando il consenso dei cittadini e chiarendo anche le responsabilità precise dei soggetti e degli interessi che costituiscono un ostacolo per le riforme.
Era effettivamente, la sua, una prospettiva che prevedeva la rinuncia all’idea di «riforme partigiane», volte ad avvantaggiare partiti o istituzioni a scapito di altre. Per contro, tutti i partiti e le istituzioni avrebbero dovuto essere in grado «di fare la propria parte al servizio dei cittadini», nel segno della Costituzione e della Repubblica come «casa comune» della società italiana e a difesa, salvaguardia e sviluppo della democrazia. «La riforma – scrive Ruffilli – viene configurata come un processo che deve toccare tutti e tre i termini del rapporto fondante della nostra democrazia: partiti, istituzioni, cittadini, e che deve mettere in grado ognuno di essi di svolgere nel modo dovuto i propri compiti, con gli adeguati controlli reciproci. L’obiettivo è di far valere effettivamente per ciascuno il nesso consenso-potere-responsabilità, introducendo nella vita politica ed istituzionale regole, norme e convenzioni efficaci».
Ma a quale cittadino pensava Ruffilli? Dai suoi scritti e dai suoi interventi risulta chiaro come il suo cittadino non sia soltanto arbitro asettico e neutrale fra giocatori altri e lontani; è invece un cittadino per il quale la partecipazione deve divenire la dimensione di fondo. Tale partecipazione non si dà una volta per tutte, ma va costruita e curata, dato che richiede grande impegno e consapevolezza della complessità di una democrazia pluralista, non accarezzando mai prospettive che aprano la strada all’alternarsi di ‘movimentismo’ e di ‘delega plebiscitaria’.
E l’eredità ideale di Ruffilli, gli elementi fondanti del suo riformismo (che egli vorrebbe «graduale ed organico al tempo stesso» e con il «coinvolgimento di tutte le forze politiche») sembrano largamente naufragati in Italia, negli anni trascorsi dal suo assassinio fino al presente e nel progressivo affermarsi di una politica di reciproca e durissima delegittimazione dei diversi attori e interessi in gioco. La lezione di rispetto reciproco e confronto leale, cui si ispirava l’indirizzo politico/morale di Roberto Ruffilli, appare largamente compromessa dalla storia di un paese, il suo, che non ha saputo farne tesoro, così come non ha saputo attuare una politica di riforme istituzionali condivise.
Molte sfide di Ruffilli appaiono tuttora inevase, prima fra tutte quella orientata a «fare dei cittadini l’alfa e l’omega di una democrazia sempre più trasparente ed efficiente» (cfr. il bel saggio di L. Ornaghi e L.Gianniti, Ruffilli e le riforme, «un deserto dei tartari», «Vita e pensiero», gennaio-febbraio, 2018). Certo le condizioni interne e internazionali sono incomparabilmente diverse oggi rispetto agli anni in cui Ruffilli pensava al suo cittadino-arbitro, tanto più in forza del fatto che le sue riflessioni si pongono al di qua della rivoluzione tecnologica che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni.
Quel che è certo però è che senza dubbio egli non avrebbe mai confuso il suo cittadino responsabile e in grado di esercitare una effettiva partecipazione, con qualcuno che, di fronte alla tastiera di un computer, di un tablet o di un cellulare sa solo esprimere un clic di assenso o condanna a messaggi preconfezionati. Né avrebbe potuto scambiare la comunicazione via tweet dei politici attuali come ristabilimento di un circuito virtuoso di interazione possibile tra governanti e governati.
maurizio fioravanti dice
Ringrazio Raffaella. Lo scorso anno ero a Trento per un seminario promosso dai giuristi amministrativisti. Spettava a me concludere i lavori. Lo feci ricordando quanto sia stata rilevante quella sede per me, e non solo per me, ovviamente E conclusi ricordando tre nomi : Pierangelo Schiera, Nicola Matteucci, e Roberto Ruffilli. Grazie, Raffaella. Maurizio.
Enzo Balboni dice
La “memoria” di R. Gherardi è pregevole in toto, ma in particolare per due ragioni. Ricorda infatti l’aberrante, ma lucida, motivazione politica che i terroristi diedero al loro barbaro gesto. Altresì viene giustamente precisata l’espressione “cittadino come arbitro” che non va letta nel senso del ricorso ad un soggetto terzo, neutrale e indifferente al risultato, bensì ad un cittadino consapevole e partecipante, la cui decisione influenza il farsi della democrazia sostanziale.
Enzo Balboni, Milano
Mariantonietta Colimberti dice
Articolo molto bello e puntuale. All’AREL conserviamo il ricordo dei mesi di lavoro insieme per la pubblicazione de “Il cittadino come arbitro”, uscito postumo…
enzo de biasi dice
Ritratto perfetto. Difatti dopo la sua scomparsa, De Mita mancandogli la “mente” per le riforme istituzionali si spense lentamente, molto lentamente che ancora adesso frequenta i luoghi del potere anche se in scala regionale.
Il suo assassinio , non a caso, è stato nel solco tipico delle BR di uccidere chi poteva far funzionare meglio il sistema democratico da lor visceralmente avversato e combattuto.