Alla base del moderno diritto penale persistono due grandi idee forza, per alcuni aspetti alternative l’una rispetto all’altra, ma da altri punti di vista fra loro consonanti. Il primo grandioso mito che informa l’idea di pena è quello della giusta retribuzione. La pena appare in questa prospettiva come conseguenza necessaria della colpa. Il reato chiama la pena, la invoca, la esige.
Troviamo una spiegazione anche terminologica della ferrea e insuperabile connessione che stringe la pena alla colpa nella spiegazione etimologica. Il termine greco poinè vuol dire compensazione, contraccambio, retribuzione. Qualcosa di simile vale anche per il termine supplizio. Esso deriverebbe da sub-pleo, rendo pieno di nuovo, come se il delitto avesse spalancato una voragine nella stessa struttura dell’essere e si trattasse dunque di colmarla tramite la pena.
Se si riflette con la mente sgombra, si trova che, a fondamento dell’idea della giusta retribuzione, resta un assunto che non solo è del tutto indimostrabile, ma che anzi appare come effetto di una vera e propria distorsione logica e teorica. Si tratta, infatti, della convinzione secondo la quale la pena possa funzionare come condotta di annullamento, come qualcosa che è in grado di ‘lavare’ la colpa, ripristinando con ciò l’ordine che la colpa ha violato. Insomma, come ha rilevato René Girard, alla base della concezione retributiva della pena, per quanto dissimulato, resta il meccanismo della vendetta, la logica appena un po’ civilizzata del sangue chiama sangue. E resta soprattutto un’idea di fondo, e cioè quella di far corrispondere al male della colpa il male della pena. Come se l’afflizione, in quanto tale, potesse rimediare al dolore della colpa.
D’altra parte, non si può dire che il paradigma abitualmente contrapposto alla concezione retributiva della pena, fondato su una visione rieducativa, correttiva, terapeutica, della pena, per quanto eticamente preferibile, sia del tutto immune da aporie e difficoltà. In questo approccio è infatti implicita una concezione organicistica dello stato, inteso come manipolatore terapeuta, che si prende cura del reo e a lui impone la sottomissione a valori proposti come universali. E la storia del Novecento è lì a dimostrare a quali tragici esiti possa condurre la concezione dello stato che pretenda di essere depositario di verità inconcusse.
Insomma, i due principali modelli di concezione della pena, per ragioni diverse, ma anche per alcuni presupposti comuni, appaiono fortemente in crisi. Nell’orizzonte concettuale ora sommariamente descritto andrebbe inquadrata anche la recente vicenda dei dieci esponenti della lotta armata da tempo riparati a Parigi, dei quali, a nome del governo italiano, Mario Draghi ha chiesto l’estradizione. Per ciascuno di essi, quali che siano i reati commessi, e quale che ne sia stata la gravità, è evidente che l’infliggere una pena non potrebbe cancellare o compensare la sofferenza inflitta ai familiari delle vittime, e finirebbe semplicemente per aggiungere dolore a dolore.
Presumibilmente mossa dalla consapevolezza dei limiti ineliminabili della concezione giuridica della pena, nel corso di un’intervista Marta Cartabia, la Ministra della giustizia, ha evocato quello che si sta affermando come paradigma alternativo, rispetto ai modelli tradizionali di pena, vale a dire la giustizia riparativa. Si tratta di attivare un complesso percorso di riconciliazione fra il reo e la vittima (o i suoi congiunti), sostituendo all’astratta inflessibilità della pena la pratica del sincero riconoscimento delle proprie colpe e della riparazione del male inflitto. Affrontando insomma, per dirla con una formula, il male (del reato) col bene (della riconciliazione).
Nessuna concessione all’indulgenza, e nessuna confusione con la dimensione irriducibilmente soggettiva del perdono. Ma un itinerario di mutuo riconoscimento che dovrebbe spezzare la logica perversa della vendetta. Un libro, uscito sei anni fa (Il libro dell’incontro), documenta che una pratica di questo genere è stata effettivamente realizzata, coinvolgendo protagonisti degli anni di piombo e familiari delle vittime. Un esempio da imitare. Ma noi saremo capaci di tanto?
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