La ‘questione Europa’ rimane storico-mondiale anche oggi. È giusto evocarla di nuovo in vicinanza delle elezioni per il Parlamento europeo, di particolare rilevanza. La richiamerò come filosofo che ritiene che l’immagine più profonda di un’epoca si palesi nella filosofia. Qui non penso l’Europa come identica all’Occidente, inteso come terra del tramonto e della sera (Abendland); non ritengo che il concetto di Europa implichi un continuo tramontare: in esso piuttosto traluce il possibile svolgimento di una verità originaria, di un ‘arché’ che stabilisce un inizio. Questo non è semplicemente una partenza, ma una provenienza che include necessariamente una destinazione e la tensione verso essa. L’anima della casa comune dei popoli europei risiede dunque nella “europeità” più che nell’‘occidentalismo’.
Vi è una responsabilità incrociata tra la filosofia e l’Europa. Differentemente da coloro che ritengono che il pensiero europeo non solo sia al tramonto ma che mostri ormai tutta la sua secondarietà e irrilevanza, è appariscente che nel XX secolo l’Europa è stata ancora filosoficamente al centro, e le maggiori spinte, valide o parassitarie, nell’ambito del pensiero sono provenute da essa: diritti e doveri, giustizia e libertà, lotta contro il totalitarismo da un lato; ateismo, razzismo, materialismo, scientismo dall’altro.
L’Europa dello spirito continua la sua avventura in condizioni nuove, dal momento che la metafisica moderna razionalistica, immanentistica, severamente secolaristica si è conclusa da tempo, e la lotta contro l’essenza totalitaria di parti consistenti della modernità filosofica è stata vinta. Ma non è stata vinta la battaglia contro la dissoluzione del concetto di bene comune, il selfinterest, il libertarismo del singolo elevato a nomos ultimo, mentre i nomoi autentici vengono scoronati.
Husserl e Maritain presentarono un concetto di Europa quale luogo storico di fini razionali, ed elevarono una critica serrata al naturalismo e all’idolatria della scienza, i quali poi troveranno punti salienti nello scientismo e nello strutturalismo di pochi decenni dopo. Con I gradi del sapere (1932) e Krisis (1938) essi diagnosticarono le difficoltà sistematiche del sapere europeo: il venir meno del suo compito e della sua vocazione normativa, e l’abbassamento del sapere a solo sapere scientifico. Maritain ha poi oltrepassato Husserl ricordando che oltre alla grecità di Atene cui quest’ultimo puntava, vi è la romanità di Roma e la Rivelazione che esce da Gerusalemme. È la questione dell’umanesimo cristiano che deve riprendere quota dopo la sua secca delegittimazione operata da vasti settori della cultura europea dal ‘700 in avanti.
L’Europa non potrà tornare a svolgere una responsabilità mondiale se abbandonerà il cristianesimo, e si volgerà alle potenze dell’epoca inchinandosi loro idolatricamente entro un secolarismo assoluto. L’Europa dello spirito è impensabile senza Gesù Cristo, e senza la corrente di vita, verità ed amore che fluiscono dalla Croce; senza un pensiero filosofico che, abbandonando l’antropocentrismo moderno, ritorni ad un senso giusto della finitezza umana. Vanno meditate le parole di K. Löwith, stese 70 anni fa: «Soltanto con l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità». Tolto di mezzo Dio, rischia di essere messo da parte l’uomo, non più pensabile a immagine e somiglianza di Dio, secondo il messaggio biblico. Allora l’uomo vede solo le proprie produzioni, e si pensa a immagine e somiglianza di se stesso, della sua corporeità più che del suo spirito, e ormai spesso a immagine e somiglianza degli animali, per cui rischia con le sue mani di abbassarsi a prodotto di scarto e di consumo.
L’Europa deve unirsi per sopravvivere (Maritain desiderava un’Europa federale). Una delle massime sfide che l’Europa deve fronteggiare è la volontà di potenza della tecnica: essa procede troppo velocemente per le nostre capacità di adattamento, e rischia di tutto travolgere. La rivoluzione biopolitica costituisce una parte primaria della rivoluzione tecnologica che domina il mondo, e che impone i suoi ritmi forsennati: robotica, media, digitale e informatica, biopolitica, intelligenza artificiale, potenziamento umano, etc. Siamo trascinati senza requie da un vento che spira da ogni luogo e trascina ogni contesto, senza pause e moratorie, e coinvolti in processi giganteschi. Questi sono messi in moto da specifiche volontà di potenza rappresentate da pochi gruppi che guidano la danza ed hanno i mezzi per farlo: una rivoluzione dunque che trasforma e non di rado travolge, e che eleva una sfida globale scaturente dal complesso tecno-scientifico. Il pensiero filosofico non si è fatto prendere in contropiede: importanti filosofi del ‘900 hanno esaminato l’impatto oggettivante e rischioso della tecnica sull’esistenza umana.
MARCO VITALE dice
L’intervento di Vittorio Possenti sul tema Europa è molto importante e del tutto condivisibile, anche dal mio punto di vista (economico). Esso va utilmente affiancato, sul piano filosofico, al saggio di Romano Guardini (Europa, Compito e destino del 28 aprile 1962): “Attraverso il loro impiego si compie la storia e ciò si chiama destino: ascesa e declino, salvezza e disgrazia. Dov’è l’ordine in cui l’uso della potenza adempie il suo significato? Credo di non giudicare ingiustamente, se penso che il problema non è stato ancora visto in tutta la sua serietà, anzi nemmeno affrontato. ma chi è chiamato a porlo e ad avvicinarsi ad una soluzione? Con ciò noi ritorniamo alla nostra questione. Non sembra che sia l’America, come continente, quella a cui è affidato questo compito. La storia di questa grande terra è ancora troppo breve per questo; essa è cominciata insieme col sorgere della scienza e della tecnica moderna. Inoltre, il suo orientamento spirituale – se è permesso un giudizio così generale – è ancora in ampia misura legato troppo strettamente alla fede in un progresso universale e sicuro. Certamente, la questione è sentita da singole personalità o circoli, ma essi sono ritenuti piuttosto come outsiders.
Neppure l’Asia, credo, lo sarà. Certo la sua storia è antichissima; ma essa sembra separarsi da questo passato e precipitarsi sulle nuove possibilità con una sollecitudine di impressionante rapidità. Certamente è prematuro parlare dell’Africa in questo contesto. Frattanto il suo incontro con scienza e tecnica sembra piuttosto creare, nel senso di una genuina cultura, confusione, che portare promozione e avanzamento. Credo che qui ci sia un compito che è affidato particolarmente all’Europa. Richiamiamoci il fatto che la sua storia, prolungata per oltre tremila anni, conduce con un andamento ininterrotto fino al più recente sviluppo di scienza e tecnica. Essa non ci si è gettata dentro con un salto, ma l’ha prodotta; e così ha avuto anche il tempo per abituarvisi. Ma, di più e di maggiore importanza: essa ha avuto tempo per perdere le illusioni. Non sbaglio certo se penso che all’Europa autentica è estraneo l’ottimismo assoluto, la fede nel progresso universale e necessario. i valori del passato sono ancora in essa così viventi che le permettono di sentire che cosa sta in gioco. Essa ha già visto rovinare tanto di irrecuperabile; è stata colpevole di tante lunghe guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma anche il rischio, anzi la tragedia dell’umana esistenza. Nella sua coscienza c’è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il fuoco dall’Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede né a garanzie per il cammino della storia, né a utopie sull’universale felicità del mondo. Essa ne sa troppo.
Perciò io credo che il compito affidato all’Europa – compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce all’essenziale – sia la critica della potenza. Non critica negativa, né paurosa né reazionaria; tuttavia ad essa è affidata la cura per l’uomo, perché essa ne ha provato la potenza non come garanzia di sicuri trionfi, ma come destino che rimane indeciso dove condurrà.
L’Europa è vecchia. Prima sembrava che il carattere della vecchiaia fosse marcato più fortemente sul volto dell’Asia – una volta, quando ancora si parlava della sua intemporalità. Oggi essa sembra rinnegare la sua vecchiaia e sorgere ad una nuova gioventù, certo grandiosa, ma anche pericolosa. L’Europa ha creato l’età moderna; ma ha tenuto ferma la connessione col passato. Perciò sul suo volto, accanto ai tratti della creatività, sono segnati quelli di una millenaria esperienza. Il compito riservatole, io penso, non consiste nell’accrescere la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica – benché naturalmente farà anche questo – ma nel domare questa potenza. L’Europa ha prodotto l’idea della libertà – dell’uomo come della sua opera – ; ad essa soprattutto incomberà, nella sollecitudine per l’umanità dell’uomo, pervenire alla libertà anche di fronte alla sua opera. Anzi, l’Europa sarà capace anche di porre la domanda se sia permesso in assoluto all’uomo esercitare il potere sull’altro uomo. L’altro uomo, che non è una cosa, ma un io, una persona”.