Un fantasma s’aggira per il mondo. È uno spettro che ritorna spesso nella storia umana, ma che oggi si propone con forza ancora più grande, egemonizzando i comuni modi di pensare e di agire. Si tratta della tendenza a portare tutto all’estremo, a polarizzare le situazioni, a considerare unilateralmente ogni cosa, indisponibili a trovare un punto d’incontro.
È andata sempre così. La storia è fatta da chi esagera: anche se ciò ha portato spesso lutti e rovine. Ma oggi, se possibile, le cose devono essere ancor più esagerate. La moderazione non solo non viene esercitata, ma non è neppure considerata un valore. Di conseguenza non se ne sente il bisogno. E ci si predispone a un’unica alternativa: o tollerare le posizioni altrui, tutte quante – perché a ben vedere ci sono tutte indifferenti, a meno che non tocchino un nostro interesse – oppure attrezzarsi al conflitto.
Entrambe le posizioni, però, sono perdenti. Ce lo insegna la storia. C’insegna poi che il coraggio, necessario per combattere, non è merce diffusa, pure quando sono molti a mostrarlo a parole. E così finiscono per avere spazio i pochi prepotenti che sanno sfruttare l’indifferenza e la debolezza altrui. Anche la tolleranza, se la vogliamo esercitare, dev’essere in qualche modo imposta agli intolleranti.
L’estremismo si ricollega oggi a una serie di fenomeni sociali, tecnologici, politici, di pensiero che hanno ormai preso piede e si sono consolidati nelle nostre vite, tanto da plasmare molti comportamenti collettivi. Pensiamo alla persistente e unilaterale messa al centro dell’individuo all’interno della nostra cultura. Si tratta, certo, di un individuo debole, ‘liquido’, ben lontano dai fasti eroici della modernità, e tuttavia capace di riproporsi nella sua autoreferenzialità narcisistica, di autoaffermarsi nella sua presunta assolutezza, e di resistere strenuamente e con violenza a chi ritiene che le minacci.
C’è poi il modo, spesso conflittuale, in cui si configurano i rapporti all’interno delle comunità virtuali a cui apparteniamo, e il carattere paradossale ed estremo che tali rapporti assumono. Le piattaforme e i programmi che ci permettono di accedere agli ambienti digitali, infatti, finiscono per contrapporre e isolare i gruppi che esse hanno creato, invece di favorire, come pure dovrebbero in quanto ‘reti sociali’, la loro interazione.
E ancora possiamo riscontrare il trionfo dell’esagerazione e una diffusa tendenza a polarizzare le posizioni in campo, sia individuali che di gruppo, questa volta nel mondo offline. Ciò vale non solo per l’agire in ambito politico, che sempre più spesso si manifesta in tutta la sua aggressività, e neppure per le forme della comunicazione prevalenti in quest’ambito, sempre più incapaci di consentire una reale mediazione fra i differenti interessi, ma anche per il modo in cui la politica stessa viene concepita: non più «arte del possibile», ma luogo del «tutto o nulla».
Pure in ambito religioso, infine, l’estremismo è attitudine diffusa. Lo è tanto nei modi propri dei fondamentalismi, di qualunque tipologia, quanto in quelli, di nuovo paradossali, di un’indifferenza laicizzante che vuole dissolvere la stessa legittimità di una scelta religiosa.
Tutto ciò ha conseguenze ben precise. Si fa di tutta l’erba un fascio. Si condanna non il peccato ma il peccatore. Si buttano giù le statue di chi ha fatto cose certo riprovevoli e ingiustificabili, ma le ha fatte in quanto figlio del suo tempo. E si condanna solo lui, tanto per lavarsi la coscienza, non la mentalità del suo tempo e i molti che all’epoca la hanno condivisa.
Si cacciano giornalisti o insegnanti, rei di usare termini politicamente scorretti, anche solo se sono altri che li hanno pronunciati e loro li hanno solamente riportati facendo il loro lavoro. Infatti, a quanto pare, certe parole proprio non devono essere usate, mai, neppure per stigmatizzarle.
Si rivendicano solo i diritti, soprattutto quelli propri, dimenticando i doveri che a tali diritti sono necessariamente collegati. Ma senza il riferimento a doveri comuni parlare solo di diritti rischia d’innescare una conflittualità che proprio il riconoscimento di questi ultimi intendeva esorcizzare.
Che ne sarebbe della nostra vita, però, se non ci fosse un punto di equilibrio? Che ne sarebbe dell’ecosistema in cui viviamo se tutto fosse portato all’estremo? Platone, nel Simposio, fa dire a Socrate che l’amore – lo stato d’animo che più di tutti ci prende, ci coinvolge, ci fa fare cose a volte incomprensibili, ci spinge a esagerare – è in realtà un daimon: un mediatore fra dei e uomini. Sta nel mezzo e fa da legame. È copula mundi. Collega cioè noi stessi e una realtà altra, ci fa capire di essere meglio di quello che siamo. E insieme collega ogni realtà a ogni altra, in un equilibrio fragile ma felice.
Non c’è bisogno sempre di rompere tutto. Non è necessario distruggere per migliorare. I corifei del «tanto peggio tanto meglio» alla fine si bruciano anche loro. Se un estremismo va ancora praticato, allora, questo è l’estremismo della mediazione. Perché per mediare, per cercare l’incontro, per lavorare all’equilibrio, ci vogliono decisione e coraggio. Ma solo seguendo questa strada, come vediamo una volta di più nella situazione che stiamo vivendo, possiamo evitare la rovina.
Dino Cofrancesco dice
“un individuo debole, ‘liquido’, ben lontano dai fasti eroici della modernità, e tuttavia capace di riproporsi nella sua autoreferenzialità narcisistica, di autoaffermarsi nella sua presunta assolutezza, e di resistere strenuamente e con violenza a chi ritiene che le minacci…”
Caro Adriano condivido ‘toto corde’. Credo, però, che alle origini del nuovo individualismo sia il tramonto delle ideologie ottocentesche. Per il socialismo ‘il va sans dire’ ma per quanto riguarda il liberalismo il discorso è tutto da fare. Se si leggono i classici del pensiero liberale, a cominciare da Tocqueville, ci si rende conto che il loro incubo era quello ‘stile di pensiero’ che avrebbe trovato in Murray Rothbard (in Italia come non sono mancati ieri i marcusiani così non mancano oggi i rothbardiani: di cloni di Simplicius ne abbiamo sempre prodotto abbastanza) il punto di approdo. Non è casuale l’incontro tra individualisti anarchici e individualisti collettivisti. Al centro dell’universo morale e politico, per entrambi, c’è l’individuo senza legami, senza comunità, senza fedi (le appartenenze sono soltanto private) ma i primi affidano al mercato la realizzazione dei loro modelli, i secondi alla sfera pubblica che–con il compianto Stefano Rodotà–considera il diritto di proprietà un ‘terribile diritto”. Alla cultura occidentale si amputa il polo Gemeinschaft e resta solo quello Gesellschaft. L’universalismo–sia del mercato sia dei ‘diritti sociali’–è ormai l’unica religione del nostro tempo. Per le altre tolleranza zero!