“Ho perso 40 chili in un anno. La mia malattia è incurabile. Sono sempre stato fortunato. Vivere così non mi interessa”. Ecco, condensata in rapida sintesi, nella titolazione della recente intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, l’esperienza che sta vivendo Oliviero Toscani. La malattia cui si riferisce si chiama amiloidosi, malattia cronica inguaribile ma non incurabile, come riconosce lo stesso Toscani che si sta sottoponendo ad una cura sperimentale, aggiungendo: “faccio da cavia”. Terribili parole che dovrebbero indurci a qualche riflessione. Innanzitutto alla profonda differenza tra ‘inguaribile’ e ‘incurabile’. ‘Inguaribile’ significa che non si dà possibilità di guarigione e, alla luce delle conoscenze attuali della medicina, molte malattie sono inguaribili. Questo però non significa in alcun modo che la persona sia ‘incurabile’ dal momento che la medicina comprende in sé, come due momenti essenziali del processo di cura, quello della terapia, del ‘dare una cura’ e quello del ‘prendersi cura’. Due momenti che sono bene espressi in inglese dalla dualità tra cure – la somministrazione della terapia – e care – la presa in carico della persona. Questo secondo momento, che rappresenta il profondo nucleo etico della medicina e, in qualche modo, esprime la sua stessa vocazione, comporta l’ascolto, l’accompagnamento, la condivisione per cui si può parlare di un vero e proprio ‘patto di cura’, di una relazione che evoca quell’arte antica dell’amicizia di cui parlava Platone a proposito del ruolo del medico. L’etica dell’accompagnamento insiste sull’esigenza di dare spazio alla qualità della vita del malato – o, per meglio dire, alla sua ‘buona vita’ – prestando attenzione agli aspetti relativi alla sfera emozionale, psicologica, culturale, sociale del singolo paziente, imparando a camminare accanto a lui senza la pretesa di imporre l’itinerario ma lasciandolo libero di scegliere la sua via, di arrivare alla sua verità, con la preoccupazione che questo processo di consapevolezza non avvenga nell’isolamento.
‘Fare da cavia’ – per riprendere la cruda espressione di Toscani – sembra certo rappresentare il contrario di tutto questo, ponendoci dinanzi alla spietata realtà della prassi medica che si nutre – e si deve nutrire – della sperimentazione. Nessuno deve essere trattato come una cavia, certamente, – non si dimentichi che la bioetica nasce proprio nel secondo dopoguerra col comparire delle Dichiarazioni Internazionali sui diritti dei pazienti a essere adeguatamente informati sul tipo di sperimentazione a cui avrebbero potuto essere sottoposti e a decidere – in base al ‘consenso informato’ – secondo una accurata valutazione dei costi e dei benefici.
Proviamo tuttavia a considerare la decisione di “fare da cavia” in una terapia sperimentale, anche a vantaggio di altri, una decisione, questa, che può essere chiarita e approfondita rileggendo alcune pagine di un grande filosofo liberale, Robert Nozick, ne La vita pensata. Affrontando i grandi problemi della nostra esistenza, parlando dell’amore, della morte, dell’amicizia e invitandoci a un esercizio di riflessione su noi stessi, intende mostrarci come la comprensione della nostra esistenza ci permetta di indirizzarla verso sempre nuovi percorsi.
“Uno degli intenti principali di queste meditazioni è di cercare di capire quali sono le cose importanti, non per prepararsi alla morte ma per far progredire la vita”. In questo quadro, Nozick giunge a delineare una possibilità di genuina natura etica che la vita potrebbe presentarci. Si tratta di un superiore livello etico, da lui definito “etica della luce”, in cui ci si potrebbe aprire la possibilità, arrivati a un certo stadio della nostra esistenza, di compiere un gesto estremo di generosità, eccedente certo la morale comune, di grande significato altruistico.
“Questa strada – avverte- non sarà per tutti, ma alcuni potrebbero seriamente considerare l’eventualità di passare i loro penultimi anni nel coraggioso e nobile sforzo di essere utili agli altri, nell’impresa di portare avanti la causa della verità, della bontà, della bellezza o della santità, così da non entrare dolcemente in quella notte soave o infuriarsi per il morire della luce ma, prossimi alla fine, facendo brillare al massimo la propria luce”. L’espressione ‘etica della luce’ fa riferimento a un momento particolare di illuminazione di profondo significato spirituale, quasi mistico, a cui accedere attraverso un esercizio di attenta riflessione su se stessi e sulle relazioni d’amore che dovrebbero legarci agli altri, specie alle generazioni che verranno. Un ruolo decisivo è assegnato alle inclinazioni nei cui confronti molte formulazioni teoriche dell’etica – basti pensare a Kant – avanzano profonde riserve critiche. “Come concepiremmo l’etica – si chiede Nozick – se avessimo fiducia nelle nostre inclinazioni? La potremmo considerare un’amplificazione delle nostre buone inclinazioni, un modo di accrescerle, regolarizzarle e canalizzarle, di dirci come diventare ricettacoli e trasmettitori di luce”.
L’ingegno umano – rileva ancora – inventerà nuovi modi e tipi d’azione efficace che altri, singolarmente o congiuntamente, potranno emulare. Mi sembra degno di nota che Nozick ci proponga in tal modo un’immagine non convenzionale della vecchiaia: un’età che, anziché essere contrassegnata da depressione, malinconia, ripiegamento su di sé sarebbe in grado di manifestare coraggio, apertura agli altri, sguardo rivolto al futuro… appunto, la luce.
“Fare da cavia” potrebbe allora significare essere protagonisti di un gesto estremo d’amore, di gratitudine per la vita che si traduce in bisogno di restituirle il privilegio che abbiamo avuto con la nascita e che diviene gesto di speranza, augurio rivolto a chi vivrà dopo di noi e a cui, col nostro gesto, potremmo forse garantire un’esistenza migliore.
Lascia un commento