Nel romanzo Il Primo Ministro, Anthony Trollope descrive minutamente, con feroce realismo e con sottile arguzia, la vita politica inglese del suo tempo ed in particolare la democrazia del suo Paese, i vizi e le virtù della classe politica, l’uso della stampa diretto a manipolare l’opinione pubblica.
Descrive tutto ciò in quello che potremmo definire come il periodo aureo della potenza inglese e delle sue istituzioni di governo.
Il quadro che ne risulta è non dissimile, quanto meno nei suoi tratti fondamentali, da ciò che scorre quotidianamente di fronte ai nostri occhi; ovvero nella nostra Italia.
Non ci si deve scandalizzare, dunque, se Norberto Bobbio nella post-fazione (1986) al suo Profilo ideologico del Novecento non giudicasse più il periodo di dominio della Democrazia Cristiana come «Libertà negata», ritenendo che sia la libertà che la democrazia dovessero ritenersi un valore anche quando fossero usate non solo per il bene, ma anche per il male; ovvero ritenendo che fosse importante che l’una e l’altra, pur realizzate semmai in forma riprovevole, risultassero entrate nelle abitudini dei cittadini impegnati nella vita politica.
Il Bobbio ‘idealista’ del Profilo si convertiva ed assumeva un realismo privo di illusioni.
La conversione di Bobbio, a mio parere, derivava dal fatto che, dopo aver avvertito i più gravi timori di fronte all’emergere dei radicalismi politici degli anni Settanta, timori che nascevano dalla sensazione di trovarsi di fronte al risorgere vuoi del fascismo, che del socialfascismo, aveva assistito alla vittoria non tanto della democrazia italiana in senso ideale, quanto dei suoi meccanismi di funzionamento, quali si erano messi in moto nel contrastare gli opposti estremismi. Vedeva, cioè, che la democrazia, essendosi radicata nella vita concreta, direi quotidiana del nostro Paese, mostrava che la sua forza non fosse tanto nella coscienza ideale delle persone, quanto nel suo costituire una pratica assorbita progressivamente da parte di tutti i gruppi sociali.
Ho voluto citare due personaggi appartenenti a due diversi mondi e periodi storici, perché nel riflettere sulla nostra storia più recente non è bene essere catastrofisti. Molti sono stati i progressi italiani sia dal punto di vista politico-sociale, sia dal punto di vista del sapere e in particolare dell’arte e della letteratura. Tanto che vi è stato chi ha parlato di un nuovo rinascimento italiano.
Ciò, tuttavia, non significa che si debba accettare il ‘fatto’, come se fosse il migliore possibile. Non significa che non si debba di nuovo, anche se non in forma del tutto nuova, denunciare alcuni importanti problemi.
In altri termini i fatti non possono celare le nostre, anche recenti, dis-fatte.
Ho usato un termine forte come quello di dis-fatta, perché a mio parere la nostra cultura e la nostra opinione pubblica vivono non avendo la piena percezione delle vere condizioni del Paese; non avendo la piena coscienza della realtà. Dunque, è forse giunto il momento per usare legittimamente le tinte forti.
La prima grande dis-fatta, la dis-fatta che è all’origine dei nostri più gravi problemi, la denominerei la fallita pacificazione della società italiana dopo la seconda guerra mondiale.
Non vi è dubbio che, all’indomani del conflitto, le forze politiche e culturali del nostro Paese abbiano, nel periodo costituente e negli anni dell’avvio del nuovo regime repubblicano, pur nella conflittualità collaborato nel sopire le spinte più estreme ancora ben vive nel nostro tessuto sociale e politico. Una qualche forma di pacificazione, come è noto, è stata raggiunta.
Tuttavia, è stata conquistata sulla base di una falsa coscienza che ha impedito che si formasse una piena consapevolezza sulla via che la nazione italiana tutta avrebbe dovuto seguire.
Le ragioni sono varie e qui le elenco sommariamente.
Non abbiamo saputo distinguere fra nazionalismo e nazionalità. Abbiamo, perciò, perduto di vista l’interesse nazionale e non superato realmente il virus nazionalistico che sul piano internazionale ha significato e significa colonialismo.
Rifiutando insieme al nazionalismo la nazionalità, ci siamo privati, di necessità e non per ragioni ideali, dell’opzione colonialistica senza comprendere di essere subordinati ad un nuovo colonialismo (politico e finanziario) che ha investito e ancor oggi investe il nostro Paese giocando sulle fratture non sanate dei gruppi sociali e politici interni.
Non avendo compreso il senso della questione della nazionalità, non abbiamo neppure ben inteso il significato dell’internazionalità.
Abbiamo seguito pedissequamente visioni del mondo oramai datate e abbiamo assunto la riduzione oramai ‘canonica’ dell’internazionalità all’internazionalismo. Internazionalismo delle formazioni democristiane, internazionalismo delle formazioni socialiste, internazionalismo delle formazioni comuniste.
Le forze sociali, ma soprattutto la nostra cultura, hanno smarrito quel senso dell’universalità che è stata la caratteristica del pensiero italiano a partire dal Rinascimento. Una posizione che sarebbe stata in grado di cogliere i limiti strutturali della stessa internazionalità, curvando quest’ultima agli ideali umanistici che abbiamo ereditato dall’esperienza cristiana.
Abbiamo acriticamente accettato vuoi l’internazionalismo proletario, vuoi quello borghese che è al fondamento dell’ideologia americana, abbiamo lasciato che soprattutto il secondo si trasformasse in globalismo, ovvero in un internazionalismo antiuniversalistico e tuttavia planetario.
Non abbiamo così compreso per tempo lo scadimento delle organizzazioni internazionali o a sistemi burocratici autoreferenziali, o a strumenti di dominio da parte di qualche potenza.
Non vi è dubbio che il nostro Paese (la sua cultura, la sua ‘ideologia’) non avrebbe avuto il potere di condizionare in modo efficace il sistema internazionale, ma avrebbe potuto mantenere aperta una opzione; avrebbe potuto indicare una possibile via diversa, così da poter giungere ad una ‘globalizzazione’ che non si dovesse in poco tempo convertire in una guerra dei dazi.
La vera pacificazione non è avvenuta, però, a causa di qualcosa di più profondo. Non è avvenuta, perché la complessa trasformazione dei rapporti economici e sociali, compiuta in un relativamente breve lasso di tempo segnato da due eventi bellici mondiali e da una crisi economica globale, ha acuito le fratture profonde che hanno da sempre segnato la società del nostro Paese. Un Paese passato repentinamente da una società contadina ad una società prima industriale e poi terziarizzata.
Queste fratture hanno, ad esempio, fatto sì che l’eredità del Risorgimento, ovvero della tensione all’unità, sia stata continuamente rivendicata o da schieramenti particolaristici (prima il fascismo, poi la Resistenza) o da chi come Sturzo riteneva che l’unica via che potesse rinnovare quella eredità fosse quella che si era trovata compressa fra il conservatorismo ecclesiastico e la laicità, ovvero una forza che intendeva superare vecchi conflitti, un cattolicesimo sociale libero dalle contrapposizioni fra Stato e Chiesa. E in questa condizione storica è stata paradossalmente messa ai margini proprio la cultura repubblicana, la cultura che aveva sostanziato di sé il processo che aveva portato alla unificazione della nazione italiana.
La fratture sociali e politiche, presenti nella prima parte del Novecento, in realtà, pur mutando nelle proprie forme, si sono riprodotte anche dopo il secondo conflitto mondiale fino ai giorni nostri.
In un primo momento queste fratture e l’anti-nazionalità che le accompagnava, ebbero, nel secondo dopo-guerra, anche effetti positivi quanto meno al livello della cultura.
Esse consentirono una nuova apertura alle altre culture, direi una internazionalizzazione, ad esempio, di molta parte della più recente filosofia italiana. Tuttavia, questa apertura, collegata ad un tempo con il dominio delle ideologie di parte radicate nelle forze politiche e nei correlativi gruppi sociali, ha significato una certa qual subordinazione all’egemonia delle differenti culture occidentali.
Ciò che restava appannato è stata la vocazione autenticamente nazionale, quella alla quale ho accennato, quella che avrebbe dovuto sostanziare il pensiero nazionale non del nazionalismo, non dell’internazionalismo, ma dell’universalismo.
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