Non di solo PIL si vive è il titolo di un articolo pubblicato da «la Repubblica» che presenta i dati del World Happiness Report 2019. In verità, chi legge la classifica dei vari paesi non può fare a meno di notare che ai primi dieci posti si trovano sistemi politici, in gran maggiorana europei, ai quali attribuiamo, anzitutto, la qualifica di ‘civili’. Sono luoghi dove molti pensano, a ragione, che la qualità della vita sia alta. Potremmo saperne di più procedendo ad una semplice operazione di comparazione. Da decenni le Nazioni Unite usano un indice, detto dello Sviluppo Umano, per misurare il livello di benessere all’interno di ogni stato. È basato su tre indicatori: livello di istruzione, salute (aspettativa di vita), reddito medio pro capite. Abbiamo messo in correlazione i due indici nella figura 1. Come si vede abbastanza chiaramente, esiste una forte correlazione fra lo Sviluppo Umano e la Felicità percepita, vale a dire che, se alto è il livello di sviluppo umano, elevato e crescente è anche il grado di felicità.
Fig. 1. Correlazione tra l’Indice di Sviluppo Umano e Indice di Felicità nel 2018/9
Per quel che riguarda l’Italia, curiosamente, alla sua collocazione (24° posto), complessivamente buona rispetto allo Sviluppo Umano (favorita essenzialmente dall’elevata aspettativa di vita), non corrisponde una posizione simile relativamente alla felicità. In questo caso, l’Italia si trova soltanto al 37° posto. Da altre ricerche sappiamo, peraltro, che la percentuale di italiani che si dichiarano soddisfatti delle loro condizioni personali di vita e nutrono aspettative di miglioramento è nettamente più elevata di quella di coloro che si dichiarano soddisfatti del sistema politico e pensano che possa migliorare nell’anno che verrà.
Ne vorremmo trarre una sola conclusione, semplice, ma non proprio lapalissiana. La relazione positiva non sta fra il PIL e la felicità, ma fra condizioni di vita, complessivamente molto buone, e la felicità. Insomma, il benessere inteso in senso lato – comprese le politiche di welfare e la diffusione di capitale sociale tra gli individui, e dunque non il solo reddito – è un potente coadiuvante della felicità.
gioacchino di palma dice
Commento per esprimere il mio consenso a quanto scritto e vorrei ricordare un famoso discorso, tenuto ben 51 anni fa da Robert Kennedy agli studenti dell’Università del Kansas, nel corso della campagna elettorale per l’elezione a Presidente degli Stati Uniti d’America.
Dopo neanche due mesi Robert Kennedy verrà ucciso a Los Angeles (06.06.1968).
Pur con le dovute differenze, legate al diverso periodo storico ed al diverso Paese in cui venne pronunciato il discorso, mi sembra che nei contenuti sostanziali si possa ben essere d’accordo sul concetto di PIL espresso da Kennedy.
Se una considerazione si vuole trarre, è che c’è ancora molto da fare prima che il concetto del PIL, da sempre solo economico, si estenda anche ad altri parametri che portino ad una valutazione del “benessere inteso in senso lato”.
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18.03.1968 – Kansas – Robert Kennedy
“ …. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta …”.
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Michele Magno dice
Articolo che ho letto con interesse e che condivido. Se mi è consentito interloquire, ricordo che l’economista bielorusso Simon Kuznets (1901-1985), ideatore del Pil come lo conosciamo oggi, già nel 1934 avvertiva il Congresso degli Stati Uniti che il benessere di un Paese difficilmente può essere dedotto solo dalla misurazione del suo reddito nazionale. Ad esempio, esso non considerava attività svolte al di fuori del mercato (come il volontariato e il lavoro domestico) e le esternalità negative -sociali e ambientali- del sistema produttivo.
Soltanto dal 1990 ipotesi alternative di benessere hanno cominciato a giocare un ruolo rilevante nel dibattito politico. Merito anche dell’Indice di sviluppo umano (Isu), elaborato dall’ex ministro delle Finanze pakistano Mahbub ul Haq e adottato dall’Onu, che al Pil affianca altre grandezze come speranza di vita, tassi d’inquinamento e di scolarità, mortalità infantile. Per non parlare dell’indice di “Felicità nazionale lorda”, un concetto -un po’ stravagante- inventato dal sovrano del Bhutan nel 1972, che quantifica le performance delle comunità fedeli ai principi spirituali del buddismo. L’ultimo tentativo di “riformare” il Pil che ha catturato l’attenzione dei media è stato quello del Presidente francese Nicolas Sarkozy, che nel 2009 lo affidò -con scarsi risultati- ai premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz. Forse pochi ricordano, invece, che diciotto anni fa – su impulso del patron di Esselunga Bernardo Caprotti- si costituì un gruppo di ricerca per analizzare il nostro Pil voce per voce, per poi paragonarlo a quello di Francia, Spagna, Olanda e Gran Bretagna. Il gruppo era presieduto da Paolo Savona, coordinato da Paolo Borzatta e composto, tra gli altri, dagli economisti Alessandro Penati e Giacomo Vaciago, dallo stesso Caprotti e da Alfredo Ambrosetti, titolare dello Studio di consulenza milanese. Le sue conclusioni furono sorprendenti: in termini comparativi, in Italia si viveva meglio di quanto raccontato dai numeri ufficiali. Infatti, le inefficienze pubbliche e private (burocrazia, trasporti, sanità, corruzione, costi energetici) erano registrate e valevano tra il 14 e il 26 per cento del valore totale dei nostri beni e servizi. Mentre no profit, economia illegale, sommerso ed economia informale (ad esempio, lavoro casalingo, autoproduzione agricola e artigianale), non erano computati come reddito. Da allora molte cose sono cambiate, ma il reddito da prostituzione in Olanda e -in certa quota parte- l’economia domestica negli Usa vengono ancora calcolati nel prodotto interno lordo, diversamente che da noi. Oggi le stime del 2000 sarebbero ancora attendibili? In realtà, bisognerebbe aggiornarle alla luce dei valori attuali e del nuovo metodo di calcolo del Pil. Tuttavia, i costi della burocrazia e della corruzione, delle inefficienze pubbliche e private sarebbero ancora calcolati come reddito, al contrario dell’economia illegale e informale che pure “produce ricchezza”. Sono i paradossi del Pil.