Se c’è qualcosa che caratterizza in generale un’epoca è l’umore condiviso, il modo cioè in cui le persone sentono il loro rapporto con gli altri e si regolano rispetto a come va il mondo. È un po’ il correlato psicologico e sociale di ciò che Hegel chiamava “Zeitgeist”, spirito del tempo. Ebbene: qual è lo spirito del tempo, oggi? Qual è l’umore predominante della nostra epoca, in Italia?
Non è certo per piangerci addosso, ma non credo che si possa mettere in dubbio il fatto che quest’umore, questo spirito attualmente non sono dei migliori. C’è un’aria diffusa di stanchezza, c’è un esercizio di disincanto che non risparmia nessuno. Sarà perché la popolazione italiana sta sempre più invecchiando, sarà perché non si vedono più quelle idee o quegli ideali che un tempo erano capaci di scaldare il cuore: in ogni caso l’atmosfera che di solito ci avvolge è di rassegnazione. Questo è un paese per vecchi. E forse, proprio perciò, i giovani, se possono, lo lasciano.
Ma si tratta solo di un aspetto della situazione. Il fatto è che non solo abbiamo l’impressione che, nonostante tutti gli sforzi che si possano fare, l’Italia non riesce a ripartire, non ce la fa ad andare avanti, ha come il motore imballato. I motivi li potremmo approfondire nel dettaglio. Quello principale sta forse nel fatto che nel nostro paese manca il senso della comunità. Intendiamoci: non a livello della famiglia, più o meno allargata, o di piccoli o grandi gruppi, i cui membri sono legati fra loro da specifici interessi. Manca il senso della comunità in quanto ci riconosciamo come italiani, per lo più, solo quando tifiamo la nazionale di calcio. Manca il senso della comunità come elemento di coesione civile. Ognuno fa da sé – s’arrangia, come si dice – senza essere in grado di coordinarsi con gli altri, o non volendo farlo, per andare nella stessa direzione.
Ma non c’è tempo di approfondire quest’aspetto. Voglio tornare sull’umore, sullo spirito che pervade oggi il nostro paese. Il problema, infatti, è che quest’atmosfera deprimente e stanca non comporta solo una rassegnazione altrettanto stanca. Spesso invece, soprattutto per chi ha ancora energie da spendere, si muta in un’attività insana e pericolosa: quella di attaccare tutti e tutto; quella di non fidarsi di nessuno e di annunciarlo ai quattro venti.
Gli altri sono i nemici. Gli altri: soprattutto se classificabili secondo ben precise categorie, anche professionali. Ogni categoria, infatti, è una corporazione, ogni corporazione è una casta. E tutte hanno i loro peccati da scontare.
Nessuno dei loro appartenenti si salva. I professori sono dei lavativi che non sanno insegnare e non vogliono farsi valutare. I giudici sono sempre di parte, e la legge – lungi dall’essere “uguale per tutti” – è diversa per ciascuno. I giornalisti sono pennivendoli prezzolati da questo o da quel potere forte. Gli impiegati pubblici sono dei fannulloni imboscati. Sui giudizi relativi a chi fa politica, e in particolare su coloro che ci governano, taccio per pudore.
Questa lotta di tutti contro tutti era stata scatenata a suo tempo, a livello politico, sulla base di un motivo comprensibile, in quanto applicazione del precetto divide et impera. Ma si è ben presto trasformata in una lotta al massacro, condotta senza esclusione di colpi e che non ha risparmiato nessuno. Alla fine la sua vittima principale non è stata questa o quella categoria, questa o quella classe di persone: è stata la coesione sociale. Che non c’è più proprio nel momento in cui maggiormente servirebbe.
E invece, ripeto, nessuno si fida più di nessuno. Ce lo abbiamo sotto gli occhi. “Tutti sono ladri”, se ne hanno l’occasione, “tutti non hanno voglia di far nulla”. “Tutti”: tranne me, naturalmente, e le persone a cui io voglio bene. Noi, al contrario, siamo puri e senza macchia. E, se colti sul fatto, neghiamo anche l’evidenza.
È chiaro l’errore logico che sta alla base di questo ragionamento. Già Socrate lo rimarcava, segnalando che è responsabile la persona, non la categoria o la classe in cui questa persona può essere inserita. Ma la logica oggi non è merce diffusa. È meglio, invece, dare spazio ai nostri sentimenti. Ne abbiamo anzi il diritto. Il problema è che, se non possiamo fidarci di nulla e di nessuno, il sentimento principale che si sviluppa e si sedimenta è, appunto, quello che conduce alla sfiducia e al disincanto generalizzati.
Di conseguenza le energie sprecate nella lotta di tutti contro tutti minano ogni tentativo di ripartire. La possibilità di uscire dalla crisi è impedita dal fatto che, se tutti diffidano di tutti, insieme alla coesione sociale viene meno il senso di appartenere a una comunità. E tuttavia, paradossalmente, se facciamo tutto da soli, prima o poi ci accorgiamo che, per raggiungere l’obbiettivo, dobbiamo venire a patti, rinunciando alla possibilità di regole condivise. Anche chi detesta le corporazioni finisce per ammetterle, creandosi la sua: magari quella di coloro che sono contro la casta.
Riusciremo a uscire da questa situazione? Di solito in Italia la coesione si ritrova quando c’è un’emergenza. Anche fatti recenti, come la tragedia del terremoto, lo hanno dimostrato. Ma non dobbiamo arrivare a questo. Non è normale. Ma domandiamoci, in ultimo: siamo mai stati un paese normale? riusciremo mai a esserlo?
alberto dice
1,credo che le ultime due righe dell’articolo pongano le domande giuste, cui però né l’articolo né tanto meno chi qui scrive ha una idea su come porre rimedio;
2.suggerisco una pista da seguire nel tentativo di trovare un rimedio : sembra che gli stessi nostri problemi si presentino anche altrove, non siamo gli unici con questa malattia sociale. Malattia aggravata non tanto dalle cosiddette disuguaglianze, che credo ci siano sempre state, e ben più gravi. E’ aggravata forse ben più dalla ristrutturazione accelerata dell’economia , che non trova più nella crescita della spesa pubblica la “camomilla sociale” che tutti abbiamo conosciuto in passato;
3.è così ? se è così, e penso che questa ipotesi sia verosimile, si può pensare di riattivare questo flusso di “camomilla sociale” ? credo di no, la strada credo debba essere altra. Si può aprire una discussione su questo argomento ?
Dino Cofrancesco dice
Uno studioso profondamente pensoso, come l’amico Adriano,ha descritto la nostra condizione spirituale in termini tanto crudi quanto realistici. Perché siamo arrivati al nadir della coscienza civica? Le cause sono molteplici e, tra queste, la ‘morte della patria’–su cui hanno scritto pagine memorabili storici come Ernesto Galli della Loggia e Renzo De Felice–sicuramente rientra tra quelle più importanti. Vorrei, però, accennarne qualcuna forse troppo trascurata (specialmente dagli scienziati politici, sempre più specialisti del nulla). Mi riferisco a quella cancellazione del termine intermedio tra la ‘tribù’ e l’umanità che ha finito per farci perdere le ‘radici’ senza farci raggiungere la comunità kantiana dei diritti cosmopolitici.Nel secolo breve, lo spirito della tribù si è convertito nella barbarie nazista del Lager e l’illuminismo nella barbarie comunista del Gulag. In mezzo non sono rimasti che i simulacri dei vecchi Stati in cui gruppi, classi, territori continuano a stare insieme solo ‘per interesse’ sicché quando una una parte del demos ritiene di non aver avuto abbastanza si organizza in combattivo gruppo di pressione, intento a farsi largo a spese degli altri e dell’interesse generale, che non si sa più cosa sia. I democristiani, si diceva negli anni della mia giovinezza, in quanto cattolici, non avevano il ‘senso dello Stato’:la cultura laica che ha relegato in cantina il ‘clerico-fascismo’ ha dimostrato di avercelo ancora meno.
Adriano dice
D’accordo per discutere questo argomento. In realtà per quanto mi riguarda volevo segnalare la necessità di un cambio di mentalità a livello collettivo. Questo cambio può essere incentivato dal recupero e dal riconoscimento di forme di agire cooperativo.