La guerra russo-ucraina impone che ci si interroghi sul futuro dell’UE. L’integrazione europea è stata inizialmente ‘funzionale’, gli Stati mettevano assieme sforzi in ambiti socio-economici limitati, senza preoccuparsi della valenza politica di queste sinergie. Del resto non poteva esserci una valenza politica, perché la Guerra Fredda riduceva la sovranità internazionale europea, consegnava il problema della sicurezza continentale all’equilibro tra i due blocchi e agli Americani la garanzia dell’Europa occidentale.
Il fallimento del modello funzionalista sta nell’illusione che gli Stati fossero disposti spontaneamente a ‘riversare’ in ambito politico i loro sforzi di coordinamento funzionale. Ma questo spillover non è mai avvenuto, o comunque non completamente ed effettivamente. Una scuola chiamata neo-funzionalista ha allora ipotizzato che occorressero delle condizioni interne e internazionali facilitanti. La guerra russo-ucraina può essere una di queste?
Quasi riecheggiando i temi del Manifesto di Ventotene, Panebianco scrive nel «Corriere della Sera» (Perché l’Italia è l’anello debole, 29 marzo) che «le guerre hanno anche, in genere, un effetto “costituente”, forgiano, nei vari Paesi, gli equilibri successivi». Sarà così anche nel ‘Paese dei Paesi’, cioè nell’UE? Vi sono una serie di ragioni che lasciano dubitare che ciò possa avvenire.
Innanzitutto, al netto delle esagerazioni giornalistiche, questa guerra resta per il momento regionale e gli effetti che sta producendo sui popoli dell’UE sono anch’essi al momento limitati. Nessuna porzione del territorio dell’UE è stato sottoposto a bombardamenti, non vi è in Europa alcuna crisi alimentare o degli approvvigionamenti energetici, certo i prezzi del gas e di altre fonti sono cresciuti ma – escluse alcune porzioni marginali delle popolazioni europee – qualsiasi cittadino dell’UE è in grado di reggere l’aggravio economico e del resto i governi nazionali si stanno attivando per contenere i prezzi.
Secondo l’ISPI, il flusso migratorio in uscita dall’Ucraina a metà marzo contava circa 2,5 milioni d’individui. Si consideri che nei primi anni dopo la II GM i flussi migratori est-ovest e da sud verso nord riguardarono decine di milioni d’individui. Insomma, se non c’è riuscita la II GM, è difficile pensare che questo conflitto regionale possa mettere in crisi gli Stati nazionali e spingere verso la fondazione di una nuova ‘comunità di destino’ europea. Si aggiunga che non avendo – fin qua – la guerra riguardato i territori dell’UE e i suoi popoli, le classi politiche nazionali rimangono al loro posto, farfugliano i loro pensierini in televisione (R. Fico: «La pace è un bene comune, come l’acqua») e difficilmente saranno spazzate via e rigenerate, come accadde dopo la II GM.
La guerra russo-ucraina difficilmente avrà un effetto ‘costituente’ sull’EU, che è già un complesso istituzionale molto articolato e tutto sommato anche piuttosto stabilizzato. Un principio basilare è che le istituzioni politiche, quando si sono stabilizzate, sono piuttosto dure a morire, sono molto resilienti e si modificano adattandosi alle nuove circostanze. Per capire perché ciò avvenga bisogna interrogarsi sulle funzioni che esse svolgono. Una scuola di pensiero neo-contrattualista pensa che le istituzioni politiche siano costrutti volontari finalizzati a risolvere problemi di coordinamento o anche a ridurre i ‘costi di transazione’, come mostrato da Douglass North. Un’altra scuola, che potremmo chiamare neo-realista, guarda alla lotta politica e senza reticenze dice che in politica c’è chi vince e c’è chi perde. Le istituzioni servirebbero a conferire ai vincenti il potere, contenendolo e regolandolo, e così mitigando al tempo stesso quelli che potremmo chiamare i ‘costi di esclusione’ dal suo godimento. In entrambe le prospettive, si capisce perché le istituzioni siano resilienti e die hard. Gli individui, gli attori politici e sociali, i gruppi, i partiti, le classi di governo traggono vantaggi dalle istituzioni, vuoi perché queste rendono gli scambi e le relazioni prevedibili e sostenibili (prospettiva neo-contrattuale), vuoi perché esse garantiscono i perdenti contro gli egoismi dei vincenti (prospettiva realista).
L’UE, come complesso politico-istituzionale, è più un meccanismo di coordinamento di alcune politiche nazionali che uno strumento per risolvere e affrontare crisi politiche, cioè l’UE non è un meccanismo per conferire potere. Philippe Schmitter anni fa lo definiva un «condominio» nel quale vi sono alcune «parti comuni» (per es., la moneta, la politica agraria, le politiche di coesione) e molte importanti «parti private» (per es., gli eserciti e la polizia, la giustizia e il fisco, le politiche del mercato del lavoro). Il tentativo di fare dell’UE una istituzione per risolvere anche la lotta politica – vecchio sogno di Altiero Spinelli e di Jean Monet – non è davvero mai partito e anni fa è naufragato con la Costituzione Europea predisposta dalla Convenzione Europea nel 2003 e seppellita dai referenda francese e olandese del 2005. L’integrazione europea ha continuato a seguire linee di sviluppo funzionaliste, cioè ‘condominiali’, e mai politiche.
Molti sostengono che l’UE non potrà sopravvivere se non si darà un ‘centro politico’, se non diventerà davvero una ‘comunità di destino, con la sua leadership, il suo governo effettivo e ovviamente i suoi «specialisti della violenza» – come li chiamava Harold Lasswell – ovverosia le sue forze di polizia e il suo esercito. Ma io sostengo, per paradosso, che invece può superare anche queste recenti crisi nonostante non abbia un centro politico e potrà sopravvivere anche senza darselo. La ragione sta nella doppia valenza delle istituzioni sopra richiamata. Una moltitudine di problemi di coordinamento tra le politiche degli stati europei potranno ancora essere risolti dai meccanismi dell’UE, i giganteschi costi di transazione generati da un svolta neo-mercantile dei sistemi economici nazionali spaventano tutti, soprattutto gli imprenditori e anche porzioni rilevanti della classe politica, come ha mostrato il caso della Brexit. Può darsi che in futuro vengano accentuati i tratti della ‘geometria variabile’ dell’integrazione europea, con alcuni stati che manterranno i legami attuali e magari ne stringeranno di nuovi, mentre altri si sfileranno su questa o quella questione. In fondo così tutto era nato, con accordi multilaterali sul carbone e l’acciaio, poi sull’agricoltura e tutto così potrebbe ancora continuare indefinitamente perché a restare fuori ci si perde di più.
Cristina Bon dice
La sua posizione sul mancato processo ‘costituente’ mi pare davvero molto interessante. Penso però che il suo discorso sarebbe più convincente se questo sistema di coordinamento funzionale di politiche nazionali fosse pienamente efficace e non generasse frustrazioni nazionali. Banalizzo: se tutto va già bene così, e se si tratta di una mera forma di coordinamento che alla fine giova a tutti, allora come possono giustificarsi i movimenti anti-europei e sovranisti? Esiste o no, secondo lei, una insoddisfazione reale e profonda nei confronti delle istituzioni europee che richiede inevitabilmente non solo una riflessione, ma anche una decisione ultima sulle sorti di questa organizzazione ibrida?
Giuseppe IERACI dice
Gentile Cristina,
il coordinamento può generare comunque risultati sub-ottimali, le politiche comunque costano e qualcuno deve pagarle. Nel caso dell’ UE entra poi in gioco il problema della discrasia tra il circuito della rappresentanza a livello nazionale e il luogo delle decisioni sulle politiche.
Per articolare meglio, direi così.
In Europa e in qualche misura nel mondo, dopo la II Guerra Mondiale le arene decisionali nazionali hanno perduto parte della loro sovranità, a seguito dei processi d’integrazione sopranazionale, come nel caso dell’Europa, oppure dell’affermarsi dei regimi internazionali come l’ONU, o ancora per l’azione di altri attori globali come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale. Questi attori globali hanno accresciuto la loro ingerenza nella politica interna degli stati-nazione principalmente ricorrendo a sanzioni economiche, come l’erogazione condizionata del credito, la minaccia dell’embargo commerciale, il controllo dei meccanismi di scambio economico-finanziario.
Per conseguenza, in primo luogo, si osserva la dualità della leadership nelle democrazie contemporanee. Le élite internazionali e i funzionari che operano attraverso le organizzazioni e i regimi internazionali esercitano un controllo effettivo sul raggio d’azione delle classi politiche nazionali, quindi svolgono un’azione pubblica.
In secondo luogo, sulle élite internazionali non agisce alcun controllo elettorale democratico, esse non devono rendere conto delle decisioni che impongono o condizionano fortemente. Così la democrazia degli stati-nazione entra in crisi, lo stesso circuito elettori-rappresentanti-decisione viene messo in discussione, perché gli elettori si accorgono di votare per qualcuno che infine non ha potere di decidere o è fortemente condizionato dall’esterno, da qui la vena populista odierna che ha i caratteri noti della rivolta contro le classi politiche, contro le istituzioni politiche nazionali e sovranazionali.
Giuseppe Ieraci dice
Paolo Feltrin mi scrive:
Caro Giuseppe,
Ho letto il tuo pezzo, non male, tuttavia avrebbe bisogno di un ulteriore addendum realistico.
Una potenza è potenza solo se è potenza, ovvero se adeguatamente armata -almeno in tempi moderni- con aviazione e testate nucleari. Gli americani ci hanno rimproverato per decenni di essere ricchi alle loro spalle non destinando adeguate risorse agli armamenti (cosa che ovviamente, per molta parte, faceva loro comodo). La corsa agli armamenti attuale (il mitico 2%) è per larga parte pura propaganda perché le armi che contano davvero sono quelle nucleari e voglio vedere chi e quando di noi europei consentirà alla Germania (o a un’Europa dominata economicamente e demograficamente dalla Germania) di entrarne in possesso. Il problema franco-tedesco da De Gaulle in poi sta tutto qui. Quando tu citi la Ceca andrebbe ricordato le moltissime resistenze francesi, che furono superate solo sfruttando la diversità di opinioni tra inglesi e americani. E andrebbe ricordata l’opposizione di De Gaulle già negli anni cinquanta all’ipotesi di difesa comune, posizione mai rinnegata dalla Francia in tutti i decenni successivi, men che meno oggi che è in netto svantaggio demografico ed economico.
Il fatto che di questa vera e propria conventio ad excludendum rispetto alle armi atomiche europee (e, di fatto, alla Germania) non se ne parli mai dimostra solo l’ipocrisia democratica nell’affrontare i tabù politici su cui si regge l’Ue, istituzione che tu giustamente valorizzi nei suoi risvolti più pubblici e positivi (integrazione economica, circolazione delle persone e delle merci, acquis comunitaire, etc.).
Cosa ne pensi ? Ciao Paolo
Così gli ho risposto:
Caro Paolo,
Condivido il tuo addendum, interamente. Infatti, penso che l’UE non sia una potenza mondiale. Ma il mio argomento molto scettico, non ti sarà sfuggito, è che date le sue premesse “funzionali”, l’UE non sarà mai una potenza mondiale. Concordo quindi che l’aumento delle spese è propagandistico, in quanto non cambia di una virgola il ruolo “vassallo” dell’UE rispetto agli USA oggi.
Giuseppe Ieraci dice
Troppo buono!
G.
Giuseppe Ieraci dice
Paolo Feltrin mi scrive:
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Così gli ho risposto:
<>
Dino Cofrancesco dice
Ineccepibile!
Giuseppe IERACI dice
Grazie Dino!