Il MoVimento è un partito e adesso – come tutti i partiti che si rispettino – ha la sua prima scissione. Nel partito, a differenza che nel movimento, i soggetti associati perseguono scopi personali (prestigio, gloria, arricchimento, godimento del potere) oltre che valori estrinseci (‘beni pubblici’). Di Maio, che sicuramente difende ‘beni pubblici’ (la ‘giustezza’ dell’aiuto portato all’Ucraina, la ‘necessità’ di mantenere in vita il governo Draghi), è anche preoccupato dai suoi scopi personali (continuare la sua carriera politica, contare qualcosa nel mondo). Umano, troppo umano – verrebbe da dire.
Dal 2009, il M5S occupa poltrone ovunque, dai Consigli di Circoscrizione al Parlamento di Strasburgo, dagli uffici dei sindaci, ai ministeri di Palazzo Chigi. La soglia del potere di governo è oltrepassata dopo le elezioni del 2018, con la partecipazione diretta agli esecutivi Conte I e II, ora nel governo Draghi.
La prima fase della trasformazione in partito può dirsi conclusa con le elezioni del 2013, quando all’asse movimentista costituito dal duo Grillo-Casaleggio (padre) e dagli iscritti alle varie piattaforme web (prima i gruppi Meetup e il Forum di Grillo, poi la piattaforma Rousseau) viene affiancato dal Direttorio dei nuovi leader parlamentari (Di Battista, Fico, Ruocco, Di Maio e Sibilia). La seconda fase è inaugurata con la nomina di Luigi Di Maio a ‘capo politico’ nel settembre del 2017, ma inizia subito la turbolenza e si avvertono le scosse di assestamento. Nel gennaio 2020 Di Maio abbandona la carica. Di Battista e più timidamente Fico, forse inibito dal suo ruolo di Presidente della Camera dei Deputati, lanciano una sfida aperta al controllo organizzativo, il cui esito è il compromesso sullo statuto del partito e l’uso strumentale che si fa di Giuseppe Conte come leader ‘di facciata’.
Sulle ragioni per cui Giuseppe Conte sia l’uomo perfetto per mascherare tutte le contraddizioni dello Statuto del M5S-partito ci siamo soffermati (Paradoxaforum, La rete organizzativa e l’insostenibile leggerezza di un leader. Giuseppe Conte e il MoVimento, 13 settembre 2021), tuttavia lo scontro per il controllo politico dell’organizzazione si è inevitabilmente riacceso. La contrapposizione tra l’ala movimentista (Di Battista) e quella istituzionale (Di Maio) ha anche un risvolto ideologico. Di Battista, che ha da sempre mal sopportato l’ascesa di Di Maio e ora grida al tradimento, propugna un ‘torniamo alle origini’, che vuol dire il ritorno alla ‘cultura dell’opposizione’, forse anche l’uscita dalle istituzioni. Lo scontro tra i movimentisti e gli ‘istituzionali’ si è più volte manifestato in questi anni nella gestione dei gruppi parlamentari, delle quote associative, con tensioni e venti di fronda rispetto alla gestione dell’alleanza con la Lega prima e il PD poi. Dopo una convivenza difficile tra queste due anime, si giunge ora alla scissione.
Di Maio sapeva che la sua sopravvivenza politica dentro il M5S dipendeva dalla tenuta dell’attuale governo, ma anche qui siamo agli sgoccioli – istituzionali, per paradosso, visto che nella prossima primavera (forse autunno?) si voterà. Meglio allora prepararsi per tempo, smarcandosi dal M5S in caduta libera e presentandosi come l’uomo delle istituzioni e della responsabilità politica, dunque come l’uomo della ‘governabilità’. Il punto è: questa fuga in avanti è anche una ‘fuga per la vittoria’?
Su questa domanda, le incognite sono molte. Intanto, tendenzialmente, gli italiani non amano molto il governismo o la retorica della ‘governabilità’. Su questo mito sono caduti fior di politici, da Craxi a Renzi. Lanciare un proclama politico su questo valore è molto rischioso dal punto di vista dei risultati. Certo, siamo il paese del ‘5% garantito a tutti’ (lo prese anche Dini), quindi si può tranquillamente pronosticare che anche Insieme per il Futuro lo avrà. Molto scaltramente Di Maio ha puntato sull’alleanza con i sindaci pentastellati, o comunque con quella frangia del movimento che davvero ha avuto esperienza di governo, così ribadendo la sua svolta ‘responsabile’ e ‘governista’.
Resta però il centro del problema: che ne sarà dei circa 11 milioni di voti andati nel 2013 (alle elezioni per la Camera) al M55? Già in questi anni le elezioni europee e le varie tornate amministrative hanno mostrato un riflusso del voto di protesta verso la destra, a vantaggio della Lega ma soprattutto di Fratelli d’Italia e non solo nel Sud. Il PD non ha intercettato in modo significativo il voto in uscita dal M5S e probabilmente si assesterà alle prossime elezioni attorno al 20% che gli attribuiscono i sondaggi di queste settimane. La piena riconversione movimentista dei 5S potrebbe servire a recuperare il voto di protesta, particolarmente se l’organizzazione dovesse finire nel controllo di un leader ‘di piazza’ e ‘di opposizione’ come Di Battista. Tuttavia, questo recupero è reso problematico dal calo della partecipazione elettorale, che nel 2013 fu del 73%, con oltre 31 milioni di elettori mobilitati, e che oggi è difficile immaginare possa raggiungere quei livelli.
Che ne sarà di Di Maio? Con il suo 5% potrà fare due cose: sistemarsi su uno scranno di Montecitorio o di Palazzo Madama (ora ne ha l’età), come ha fatto Matteo Renzi, per aspettare tempi migliori; oppure saltare subito sul primo carro governativo, qualora da un hung parliament (un parlamento senza maggioranza), quale presumibilmente sarà il prossimo, venga fuori una coalizione di partiti e partitini che darà vita al solito governo ‘delle larghe intese’ o similare. Auguri Ministro!
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