Per gli italiani della mia generazione (ho 60 anni) era naturale proiettare al futuro il ruolo dominante dell’Occidente. A guida statunitense sì, ma con una forte componente europea, di un’Europa che si andava unificando e rimaneva saldo partner degli USA. Questo scenario viene oggi messo in discussione. Il futuro dell’Europa si fa stretto, a meno che…
A indurre incertezze sul futuro dell’Europa contribuiscono fattori esterni e interni, talora combinandosi in spirali negative. Tra i fattori esterni si contano il cambiamento nel ruolo mondiale degli Stati Uniti; la politica di potenza della Cina; il crescente interventismo della Russia; la prorompente dinamica demografica in Africa. Nel complesso questi cambiamenti esterni complicano le prospettive dell’Europa. Tra i fattori interni menzionerei il riemergere di fratture tra paesi europei, accompagnate da inquietudini nazionali; l’incompletezza dell’Unione economica europea messa in tensione da vari fattori di crisi; l’inadeguatezza delle politiche sociali nell’UE; l’assenza di una vera Unione politica; la deficienza di una politica estera e di difesa comuni. Nel loro insieme, le fragilità interne indeboliscono la fiducia nell’UE e tra europei.
Ancorché imprecisata e imprecisabile, la visione ‘America first’ di Trump mette in discussione la coesione atlantica: molti sarebbero gli esempi ma forse il più evidente è la reintroduzione di dazi commerciali sulle importazioni americane anche dall’Europa. Grandi potrebbero essere i danni per il benessere europeo, fondato in ampia parte sul libero interscambio nel mondo. Nel frattempo, la politica mercantilistica della Cina pervade i vari continenti e, con la Nuova Via della Seta, si affaccia persino nel cuore del vecchio continente. E dalla Russia autocratica di Putin si moltiplicano gli interventi – militari e di varia natura tecnologica – ad alterare gli equilibri nell’UE così come nel Mediterraneo e nel Medio-Oriente. Non sfugge che talora, in modi più o meno visibili, le interferenze russe si insinuano persino nelle dinamiche democratiche dei vari paesi europei. E non si possono dimenticare le previsioni, pressoché certe, di impetuosa crescita della popolazione africana, e quelle, molto probabili, di non comparabile crescita economica in Africa. Ciò delinea una forte e duratura pressione migratoria verso l’Europa che potrebbe assumere tratti non sostenibili.
Se le sfide poste da questi cambiamenti esterni preoccupano ma potrebbero anche favorire il rafforzamento della coesione europea, allarma ancor più la perdita di fiducia nell’UE. È evidente la crescita di partiti e movimenti populisti che hanno vita facile per due motivi. Da un lato, facendo leva sul fatto che le risposte dell’UE alle sfide esterne sono tarde e inadeguate, semplificando i problemi, propongono risposte nazionali. Dato che si tratta di sfide comuni per l’intera Europa, affrontarli alla spicciolata è di certo inefficiente e con ogni probabilità anche inefficace.
Dall’altro lato, è l’UE stessa a venire rappresentata come parte del problema. A rendere plausibile questa visione contribuiscono debolezze nell’Unione economica, nelle politiche sociali, nella rappresentanza politica, nella politica estera e di difesa comuni. L’Unione economica europea resta in tensione per vari fattori di crisi cui si sono date risposte istituzionali ancora incomplete. Esemplare è il caso dell’Unione Bancaria, varata con tempi accelerati nel 2012. Dei tre pilastri previsti per l’Unione bancaria – Meccanismo Unico di Vigilanza (SSM), Meccanismo Unico di Risoluzione (SRM) e Schema Europeo di Assicurazione dei Depositi (EDIS) – è stato pienamente attuato solo il primo mentre per SRM sussistono dubbi sull’adeguatezza della dotazione di fondi ed EDIS è stato rinviato. Ai ben informati è chiaro che tale incompletezza è stata causata dai poteri di veto di alcuni paesi membri e che essa mette a rischio il successo dell’Unione Bancaria. E, ancora, l’assenza di adeguate politiche sociali che garantiscano un livello minimo di sostegno in tutta l’Europa, a prescindere dallo stato nazionale di appartenenza dei singoli, rende inapplicato il concetto di cittadinanza europea. E ciò ha avuto effetti disastrosi nel disamorare sul progetto di unione europea popoli che erano da sempre pro-UE e pro-euro, come l’Italia, la Grecia e la Spagna, colpiti da profonde crisi socioeconomiche. Mentre più problematica ancora è la questione della rappresentanza, laddove alle elezioni del Parlamento europeo votiamo per lo più solo partiti e movimenti con stretta delimitazione nazionale. Infine, di fronte a leader sempre più vocali e assertivi, come Trump o Putin, l’UE non parla mai con una voce sola, le sue posizioni in politica estera si differenziano su base nazionale e non ha una difesa comune. Insomma un coacervo di debolezze, che non si sommano bensì si moltiplicano, quando le grandi sfide esterne richiederebbero invece grande coesione.
Prendendo per dati gli scenari esterni, mi pare evidente che il progetto di unificazione europea sia oggi più che mai a rischio di implosione. Nonostante ciò, si può nutrire ancora la speranza che l’idea di Unione riparta. Unica certezza è che siamo di fronte a una ‘sliding door’. Se si prenderà la via dei nazionalismi si riaffacceranno scenari foschi che il vecchio continente visse cento anni fa, ma in un contesto oggi ben più sfavorevole. La leadership mondiale prima solo europea e poi occidentale (in partnership con gli USA) è fenomeno relativamente recente, legato alla supremazia tecnologica, militare, culturale e statuale acquisita con la prima Rivoluzione industriale del 1800. Il riemergere di Cina e India, eredi di imperi plurimillenari, cambia decisamente il contesto. Se la condivisione della leadership mondiale è stata possibile nel dopoguerra con il partner americano, potrebbe non essere altrettanto facile da realizzare con i vecchi imperi, che contano 2,6 miliardi di individui. Ciò vale per l’intera Europa che, a seconda delle definizioni, oscilla tra 300 e 400 milioni di abitanti. Se l’UE si disfacesse, avremmo vari staterelli che non potrebbero certo confrontarsi con i nuovi/vecchi giganti. Ad esempio, nel confronto con la Cina, i 60 milioni di italiani sarebbero di meno di ciascuna delle 8 province cinesi più popolose (Guandong 110 milioni, Shandong 100, Henan 95, Sichuan 83, Jiangsu 80, Hebei 75, Hunan 68 e Anhui 62).
Se invece si persisterà verso l’unificazione non potremo più permetterci tempi da lumaca o veti nazionali. A far pendere l’ago della bilancia dall’una o dall’altra parte sarà determinante la fiducia tra europei. Forse, per una scelta informata e razionale, dovremmo chiedere alle istituzioni comunitarie e a tutti i politici nazionali di ascoltare la generazione degli studenti Erasmus, che conoscono il nostro continente meglio di tutti i politici e funzionari. Sanno che, sebbene i singoli paesi differiscono, vi sono più elementi di condivisione che di separazione. E, ultimo ma non meno importante, anche perché questo stretto futuro dell’Europa appartiene soprattutto alla loro generazione.
Lascia un commento