Tecnica e politica. Si tratta di stabilire se i due termini certifichino una dicotomia irriducibile o se siano le facce di un Giano burlone che ruota la testa come in un remake improbabile del film L’esorcista. Qualche anno fa mi ero lanciato, per la rivista «Istituto di politica», in una riflessione al riguardo. Ero convinto che non vi fosse una linea di demarcazione rigida e manichea tra tecnica e politica. Come esempio di precedenti semantici avevo portato l’ideogramma cinese di tecnica.
Mentre noi intendiamo genericamente la parola tecnica come baluardo incontrastato per empirismi di ogni sorta, l’ideogramma cinese ne amplifica il significato, includendo sfumature come crocevia, cammino, strada, comunicazione. Molto difficile immaginare una transizione pacifica tra le due accezioni. Sotto la nostra pelle, nervi, muscoli, articolazioni, fluidi sono amalgamati in un insieme quasi indistricabile, se non post mortem quando si disseziona il corpo ormai senza vita. L’immersione in un coacervo apparentemente confuso non impedisce ad ogni organo di espletare funzioni e compiti estremamente specializzati e precisi. Tecnica e politica dovrebbero funzionare allo stesso modo.
L’ultimo anno di pandemia e della sua gestione si è rivelato un enorme laboratorio comportamentale e scientifico. Laboratorio che ha esaltato aspetti gratificanti di solidarietà umana e contemporaneamente un incombere di egoismo e propensione alla idiozia di gregge che non avrei pensato possibili dopo un secolo di regimi totalitari, due guerre mondiali, epidemie e crisi dal carattere sempre epocale e solo in apparenza definitivo.
Il laboratorio Covid19 ha detto la sua anche su tecnica e politica, a prescindere dalla ridda di luoghi comuni che infestano senza ritegno questi giorni di cambio governo. Premetto una professione di fede laico-sanitaria: credo nel Covid19, credo nelle misure di prevenzione (non tutte e non sempre tuttavia), credo nel vaccino, credo nella mascherina (FFP2, per carità!), credo nei colori, credo… mi fermo qui. L’atto di fede laico deve essere anche ragionevole.
Se oggi la categoria dei politici mostra tutti i suoi limiti, quella dei tecnici del giorno, i virologi, non è da meno. Non voglio entrare nel merito delle infinite e spesso contrastanti dissertazioni statistiche cui siamo stati sottoposti con assiduità da un anno a questa parte e che hanno devastato la nostra capacità critica in un senso e nell’altro.
Voglio entrare invece nello specifico del rapporto tra tecnica e politica. Le determinazioni dei virologi sono certamente fondate (da una parte e anche l’opposto?), ma non sono la nuova sacra bibbia né la nuova carta dei diritti dell’uomo la cui riscrittura non è stata loro devoluta da alcuno. La dimensione sanitaria è fondamentale ma non è in alcun modo il nuovo assoluto della vita sociale e dell’esistenza. Ne risulterebbe un dramma senza sfogo, una vita priva di senso i cui unici termini vengono fissati di volta in volta sulla base di infiniti tamponi, esami e quant’altro. Per inciso non sembra che, ad esempio, le polveri dell’ILVA di Taranto o i fumi della terra dei fuochi siano mai stati ritenuti degni di un qualche lockdown, anche se generano morti e malati in quantità e continuità impressionanti.
Non metto in discussione in alcun modo la prevenzione attraverso il contenimento nelle sue varie forme. Credo anzi che sarebbe stata essenziale la riorganizzazione restrittiva dei trasporti pubblici, da preferire alla chiusura arbitraria di musei e teatri, ma anche ristoranti, dopo aver spinto (giustamente) questi ultimi ad attrezzarsi per poter svolgere attività in sicurezza. Metto in discussione il senso di onnipotenza e assertiva noncuranza per il prossimo che spinge alcuni personaggi, a rotazione, ad enunciare sentenze di chiusura dell’ultimo momento, in un evidente rifiuto empatico esibito come trofeo, passando sopra attività e vita di migliaia di persone, ridotte a rimanere in attesa da mesi di una parola di salvezza puntualmente latitante.
La totale assenza di empatia, del dovere di giustificare e rendere praticabili misure che rendono molto difficile l’esistenza mostra una accezione di tecnica come forma di controllo impositivo, inconciliabile con la vita democratica e il rispetto, se la politica non ha la forza di declinarla attraverso la lente dei valori irrinunciabili nella società che vorremmo (condizionale d’obbligo). Intendere la tecnica come uno schiacciasassi che derubrica ogni altra dimensione dell’esistere diversa dalla prassi statistica equivale a mettere in discussione le basi stesse del contratto sociale che dovrebbero attingere all’umanesimo senza sconti.
Anche un virologo, per quanto abituato a frequentare primariamente provette e microorganismi, dovrebbe tentare di comprendere cosa significa relazionarsi con gli esseri umani, tenendo bene a mente che l’empatia non si individua con i coloranti e non si può misurare in femtogrammi.
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