[Editoriale di «Paradoxa» 4/2023, “IA – Tu chiamala, se vuoi, intelligenza”, a cura di Stefano Quintarelli]
Ho chiesto a uno dei volti più noti dell’intelligenza artificiale generativa (ChatGPT) se conoscesse l’espressione «generato, non creato». Mi ha spiegato che è un sintagma proprio della teologia cristiana e che – copio e incollo la risposta – «in questo contesto ‘generato’ si riferisce al fatto che il Figlio è nato o ha avuto origine dal Padre, ma non è stato creato nel senso di essere stato creato ex nihilo (dal nulla) come il resto del creato». Chapeau. È assai improbabile che, rivolgendo la stessa domanda all’uscita di una chiesa di culto cattolico, dove ogni domenica i fedeli professano nel Credo questo articolo di fede, si otterrebbe una risposta altrettanto precisa nel restituire senza fronzoli la posta in gioco del punto in questione, nello specifico la salvaguardia dell’identità sostanziale tra le persone della Trinità. È altrettanto improbabile, però, che ChatGPT abbia colto la maliziosità della domanda: ma non anticipiamo.
Anche volendosi atteggiare a navigati fruitori di tecnologia, sarebbe difficile negare che interazioni di questo tipo – cui faremo, volenti o nolenti, l’abitudine – suscitano ad oggi uno stupore che è in bilico tra l’ammirazione e l’inquietudine. Le pagine che seguono scavano a fondo in questa ambivalenza, aiutando a calibrare ottimismo e preoccupazione, a distinguere tra rischi reali e problemi fittizi. Ad un primo livello, questo fascicolo si può leggere come una sorta di prontuario (utilissimo, almeno per chi scrive), per orientarsi in una realtà di cui si parla molto, ma non sempre in modo accessibile ai non addetti ai lavori o con la dovuta competenza tecnica. Il lettore ha così l’occasione di familiarizzarsi con espressioni come «prompt», «Large Language Model», «embedding», «transformer», «encoder» e «decoder», che, opportunamente spiegate e combinate in un quadro d’insieme, consentono di farsi un’idea di come possa accadere che una macchina fornisca risposte – o, come si deve dire, «output» – capaci di sorprendere anche chi l’ha progettata. L’illustrazione di questi concetti elementari dell’intelligenza artificiale generativa è finalizzata ad una prima mappatura del campo di applicazione di questo tipo di tecnologia che è nuovo e che, di conseguenza, innesca problemi che richiedono soluzioni altrettanto innovative (e al momento non disponibili): dalla ridefinizione dei criteri di verificazione di un’informazione all’individuazione dei «bias» nella fase di addestramento; dalla reinterpretazione dell’idea di proprietà intellettuale, all’elaborazione di una regolamentazione efficace e condivisa; dall’incremento esponenziale della vulnerabilità sul piano della cybersicurezza e su quello dei mercati (a rischio bolla finanziaria), all’impatto sul piano della didattica e dell’apprendimento.
C’è però un secondo livello di lettura di questi contributi, che punta ad una comprensione più radicale del fenomeno in questione e che si può riassumere in una tesi molto forte: ‘intelligenza artificiale generativa’ è un’espressione largamente metaforica, che si riferisce ad una tecnologia la quale, a dispetto delle apparenze, ha molto poco a che vedere con quel che chiamiamo ‘intelligenza’ in senso proprio e con i fenomeni che abitualmente associamo a questa, come la comprensione o la creatività. Per un verso, infatti, la capacità che attribuiamo ai calcolatori si può chiamare ‘intelligenza’ soltanto attraverso una serie di drastiche operazioni di riduzione: riduzione della molteplicità di versanti dell’intelligenza umana alla sola intelligenza computazionale; riduzione di qualsiasi tipo di problema ad espressione numerica; riduzione della semantica alla sintassi, e si potrebbe continuare. Per altro verso, quella che tendiamo ad interpretare come autonomia o creatività non è altro che un modo suggestivo e proiettivo di definire quella che di fatto altro non è che la nostra ignoranza (nel dettaglio) dei processi che hanno condotto ad un certo risultato.
Autori e curatore sono consapevoli del fatto che un’impostazione teorica così decisa (che si colloca nel filone argomentativo inaugurato dal celebre esperimento mentale di Searle sulla ‘stanza cinese’) è tutt’altro che scontata o condivisa e che, anzi, il dibattito filosofico su questi temi è apertissimo e incandescente. Sarebbe evidentemente del tutto fuori luogo pretendere di discutere nel merito, in qualche riga, la tesi di fondo proposta: mi limito qui a sottolinearne una diramazione che meriterebbe di essere ulteriormente esplorata. Rilanciando la quanto mai opportuna attenzione al piano metaforico cui richiama il curatore, si può osservare che in fondo, a differenza di ‘intelligenza artificiale’, ‘generativa’ è una metafora assai più appropriata nel descrivere il fenomeno cui si riferisce e soprattutto i limiti che lo caratterizzano: perché, per l’appunto, ‘generato’, in certo senso, significa proprio ‘non creato’. L’uso teologico e quello biologico della nozione di ‘generazione’ convergono infatti nel pensare quest’ultima come un processo che, muovendo da una certa realtà, dà luogo ad una realtà dello stesso tipo che non è sostanzialmente altra rispetto alla prima: il Padre, o un padre, non è il Figlio, o un figlio, ma è della stessa sostanza. Il che ha come conseguenza immediata e decisiva che il padre non è l’‘autore’ del figlio. La creazione, per contro, presuppone uno scarto qualitativo per cui il processo di realizzazione ha luogo ad opera dell’autore, il quale è capace di creare ex nihilo perché ha integralmente in sé il principio di quel che crea e non si limita a trasmetterlo, né lo conferisce al creato il quale, per parte sua, non ce l’ha e resta strutturalmente dipendente dall’artefice. Ora, proprio l’autore è quel che è manifestamente assente dai processi generativi messi in opera dalla cosiddetta intelligenza artificiale, con tutto il carico di problemi, anche giuridici, che ciò comporta. E questa assenza spiega perché possiamo, certamente, restare sorpresi di fronte a qualcosa che si presenta come un’opera d’arte generata (e non creata) da un calcolatore, ma tale stupore non cattura l’attenzione sufficientemente a lungo da trasformare quest’ultima in un vero e proprio godimento estetico: perché quel che cerchiamo in un’opera è l’esperienza, e l’espressione e la voce, di un autore, ossia di qualcuno che sappia risponderne come di qualcosa di suo e che proprio perché ne risponde sa entrare in relazione con la nostra esperienza e sa interessarci. Ma la capacità di rispondere in questo senso forte, creativo e non generativo, in altri termini: la responsabilità è proprio quel di cui l’intelligenza artificiale non dà segno – ancora? – di essere capace: almeno per il momento la tecnologia non smette di essere in cerca d’autore.
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