Il 22 aprile si è celebrata la Giornata della Terra, istituita mezzo secolo fa sull’onda del nascente movimento ambientalista, una ricorrenza che ci dovrebbe consentire di aprire una riflessione – in tempi di corona virus – sui pericoli che ci minacciano e le sfide che ci attendono.
Il livello di consapevolezza ambientale è indubbiamente cresciuto negli ultimi decenni e la tematica della difesa dell’ambiente, appannaggio dapprima di gruppi minoritari, è diventata sempre più patrimonio collettivo. Si è progressivamente rafforzata la coscienza che lo spazio geografico in cui viviamo è l’unico di cui disporre e non è riproducibile: una storia plurimillenaria si innerva in ogni costa, valle e montagna, in ogni città piccola o grande.
Ne è emersa la necessità di stabilire regole atte a disciplinare le interazioni tra uomo e ambiente, definendo i confini di una nuova responsabilità individuale e sociale. Negli anni ’70 nascono così nuovi diritti – i cosiddetti ‘diritti di terza generazione’ – ispirati a una visione della Terra come bene prezioso da tutelare: il diritto all’ambiente, che afferma il diritto propriamente umano a godere di un ambiente sano, non contaminato, di cui occorre preservare la bellezza, e il diritto dell’ambiente che ne definisce il valore intrinseco da salvaguardare, in quanto patrimonio universale dell’umanità da trasmettere nella sua integrità alle future generazioni.
Ma è soprattutto il saggio Gaia (1979) di James Lovelock a esercitare una profonda influenza introducendo l’idea del pianeta Terra come un unico organismo vivente. Un’idea nuova e sorprendente che riprende in realtà un’immagine arcaica, quella, propria del mondo premoderno, che vedeva nella Terra non solo un essere vivente ma la madre stessa da cui la vita si genera: «Terra Mater», un’immagine potente che suscitava sentimenti di amore e di timore.
Negli stessi anni, un libro di una storica delle idee, Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica, mostra come l’idea materna della Terra abbia esercitato, in un remoto passato, un preciso ruolo normativo, promuovendo atteggiamenti di rispetto nei confronti della natura e come, viceversa, nel mondo moderno, nato dalla rivoluzione scientifica, sia subentrata una visione meccanicistica, e quindi un’immagine della natura sempre più simile ad una macchina da manipolare a esclusivo profitto dell’uomo. Solo nel mondo postmoderno, grazie all’ecologia, è stato possibile – secondo la Merchant – recuperare una visione organicistica, spogliata da ogni mitologia e scientificamente fondata, in gradi di restituire vita alla Terra.
L’uomo riconosce di essere parte di un tutto che gli è legato inseparabilmente, membro di una comunità di vita, l’ecosistema. Un punto di svolta di straordinaria importanza nella nostra storia – che ha indotto taluni filosofi, come Hans Jonas, a identificare nella natura come responsabilità umana il problema epocale del nostro tempo e il novum su cui riflettere nell’ambito dell’etica o storici della scienza, come Michel Serres, a parlare di un «contratto» da stipulare con la natura, ieri vittoriosa e ora vittima, per riparare ai danni ad essa inflitti al fine di riequilibrare la bilancia della giustizia, imponendo all’uomo talune forme di risarcimento.
Anche la comunità internazionale ha dovuto prendere atto di quanto il nostro futuro sia legato alla capacità di essere in equilibrio col pianeta e, quindi, dell’urgenza di varare strategie di sviluppo sostenibili. Le linee generali delle più recenti politiche ambientali sembrano per molti aspetti trarre ispirazione dagli orientamenti, maturati in ambito bioetico, che hanno trovato un’espressione particolarmente significativa nella Dichiarazione di Barcellona, sottoscritta nel 1998 a conclusione di una ricerca promossa dalla Commissione Europea, al fine di riflettere sull’impatto della ‘rivoluzione biologica’ sulla condizione dell’uomo, dell’ambiente e delle altre specie, elaborando un quadro concettuale unitario su cui poter articolare politiche valide per un mondo globalizzato.
Degno della massima considerazione, a mio avviso, è che, dopo aver ribadito la possibilità di argomentare plausibilmente che gli esseri umani hanno dei doveri verso «la parte non umana della natura vivente», si traccino le linee di un’etica della responsabilità che superi dichiaratamente l’antropocentrismo della morale tradizionale pur esprimendo una fondamentale vocazione umanistica. Dalla Dichiarazione emerge nettamente, infatti, la centralità della tematica ambientale per una politica rivolta al futuro ma, insieme, capace di recuperare e rafforzare i valori che hanno fondato l’Europa in una storia che ha radici assai antiche.
Una storia, occorre ricordare, in cui natura e cultura non sono contrapposte come due regni separati ma vivono in uno scambio continuo e, spesso, in profonda simbiosi. Fiumi, foreste, montagne non formano soltanto il paesaggio che l’uomo ha abitato dalla preistoria ma sono le forze vive con cui si è misurato creando la sua storia e alimentando la sua fantasia. Un paesaggio è formato da stratificazioni della memoria almeno quanto da sedimentazioni di rocce.
Per questo la giornata della Terra è anche la nostra giornata. Oggi che l’emergenza sanitaria ha attirato la nostra attenzione su come l’alterazione degli ecosistemi e la sottrazione di habitat naturali alle specie selvatiche favoriscano il diffondersi di patogeni prima sconosciuti dovremmo diventare sempre più consapevoli che la salute è globale e che unico è il destino.
Francesco D'Agostino dice
Concordo in linea di massima con quanto scrive Luisella Battaglia, ma vedo che resta impigliata nella stantia critica all’ “antropocentrismo della morale tradizionale”. Ora l’etica o è antropocentrica o non è: la natura, l’ecosistema, la vita e la morte (in sé e per sé) non sono né buoni né cattivi: è l’uomo che proietta su di loro l’ordine dei valori, costruendo un orizzonte di senso.
Raffaella Gherardi dice
Tanto più opportunamente in periodo di coronavirus, Luisella Battaglia sottolinea la “centralità della tematica ambientale per una politica rivolta al futuro”. Peccato però che alcuni segnali da parte della politica a livello mondiale sembrino andare concretamente in ben altro senso e non mi riferisco soltanto alla scarsa (per non dire “nulla”) sensibilità alle tematiche dell’ambiente di molti leader di importanti paesi per i quali anzi l’emergenza economica già fin da ora rappresenta un comodo cavallo di battaglia contro qualsiasi preoccupazione sulla distruzione dell’ambiente. Che dire, per esempio, dell’annuncio dato con grande solerzia fin dall’inizio dell’attuale pandemia dell’annullamento di COP 26 (United Nations Framework Convention on Climate Change) che si sarebbe dovuta tenere a Glasgow a fine novembre 2020 e che invece è stata rinviata di un anno? Non sarebbe stato possibile immaginare e non ci sarebbe stato il tempo per organizzare almeno un summit per via telematica fra i rappresentanti dei vari paesi e organizzazioni della società civile che vi dovevano prendere parte? Forse questa volta non si va molto lontano dal vero a pensare che il coronavirus abbia costituito una comoda scusante per non dover dar conto ancora una volta dei tanti insuccessi che si sono susseguiti sulla scena mondiale negli anni che ci separano dagli accordi di Parigi sul clima (2015) e da ultimo del pressoché totale fallimento della Conferenza delle Parti di COP 25, tenutasi a Madrid nel dicembre 2019.