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Globalizzazione e rivoluzione digitale: un ruolo inatteso per la Cina

11 Maggio 2017 di Ignazio Musu 1 commento

La globalizzazione è periodicamente messa sotto accusa; questo è uno di quei periodi.

Sostenuta dell’autorevolezza del nuovo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, torna oggi di moda una critica fondata sui rischi di un libero scambio incontrollato.

Si ritiene che limitando il libero scambio e in particolare concentrando l’attenzione dei singoli paesi sull’esigenza di equilibrio nei rapporti di scambio bilaterali, si favorisce la ripresa dell’occupazione minacciata dalle eccessive importazioni o della immigrazione di manodopera straniera.

Sembra quasi paradossale che Xi Jinping, presidente di un paese che si dichiara ancora formalmente comunista come la Cina, abbia invece recentemente al Forum di Davos invitato a valorizzare gli aspetti positivi della globalizzazione e la necessità di governarla attraverso una crescente collaborazione multilaterale.

Xi Jinping ha probabilmente capito che la forza fondamentale che spinge oggi e spingerà in futuro la globalizzazione non è il libero scambio, ma la rivoluzione digitale (alcuni parlano di una quarta rivoluzione industriale).

E’ vano illudersi di fermare il processo di globalizzazione, e soprattutto le sfide all’occupazione, ponendo degli ostacoli al libero scambio.

La rivoluzione digitale guida la globalizzazione dagli anni 1990 e tutti si rendono sempre più conto che una delle sfide più importanti  che essa pone riguarda l’impatto sull’occupazione per il ruolo crescente della robotica e dell’intelligenza artificiale, che estende la minaccia anche a lavori con una istruzione a livello superiore e universitario.

Il ruolo fondamentale delle tecnologie digitali nella globalizzazione è determinato dal fatto che esse consentono un flusso mai sperimentato di dati, informazioni, idee e “know-how” su lunghe distanze a costi decrescenti, estendendo il processo di internazionalizzazione delle catene del valore anche al di là del fattore “costo del lavoro”, e riducendo complessivamente il fabbisogno di occupazione.

La Cina è perfettamente consapevole di queste sfide, semplicemente perché ne sta diventando rapidamente protagonista. Sta investendo nella robotica, nel commercio on-line (Alibaba), nell’intelligenza artificiale, nel trattamento on-line dei Big Data.

Le sfide all’occupazione della rivoluzione digitale richiedono l’impegno di politiche coordinate tra i vari paesi, soprattutto tra quelli che sono più avanti (e la Cina è tra questi) nello sviluppo della digitalizzazione.

Il fatto la rivoluzione digitale allarghi le opportunità di partecipare al consumo e anche alla produzione non implica automaticamente che tale opportunità si trasferisca sui redditi delle attività rese possibili.

L’esperienza sembra piuttosto mostrare che i redditi si concentrano su piccoli gruppi di grandi imprese globali (Amazon, Apple, Google, Facebook, ma adesso anche i giganti asiatici della rivoluzione digitale Alibaba, Foxconn e Softbank ).

Inoltre molti dati dell’esperienza dicono che è molto difficile affermarsi in un mercato che appare organizzato in modo che “chi vince prende tutto”.

Le imprese esistenti di grande dimensione e già abituate ad agire con profitto sul mercato globale, possono rendere (e già di fatto rendono) difficile, se non impossibile, l’azione indipendente dell’innovatore, magari asservendolo ( se è proprio bravo) alla propria attività con la promessa di lauti guadagni.

Contro la formazione di veri e propri monopoli online sovranazionali occorrerebbe una azione antitrust affinchè sia consentito a chi intende esercitare una iniziativa imprenditoriale nella produzione di beni e servizi mediante le tecnologie digitali, di poter effettivamente verificare la propria capacità di successo sul mercato.

Ma le attività antitrust agiscono a livello nazionale, mentre qui la sfida è di natura globale; è questa una delle sfide che la rivoluzione digitale pone al governo della globalizzazione.

Un’altra sfida che non può essere affrontata se non in un’ottica di coordinamento tra governi è quella delle azioni fiscali sui profitti delle grandi aziende digitali al fine di una redistribuzione per garantire un adeguato livello di domanda aggregata per assorbire l’indiscutibile aumento di produttività consentito dalle nuove tecnologie.

La Cina poi (ma forse non solo la Cina) deve sempre più affrontare il problema del rapporto tra la digitalizzazione dell’economia e la distribuzione del potere effettivo, compreso quello politico.

La grande domanda è se la Cina deve temere che la inevitabile diffusione dell’accesso on-line metta in discussione il potere centralizzato del Partito Comunista Cinese e apra le porte a un pluripartitismo e a una democrazia rappresentativa.

E’ molto discutibile che la classe dirigente cinese debba temere una sfida al proprio potere politico.

Del resto, anche nelle democrazie occidentali non è affatto chiaro verso che direzione porti la diffusione dell’accesso alla rete per quanto riguarda il futuro del potere politico.

Quello che forse la classe dirigente cinese deve temere di più è il potere messo nelle mani delle grandi imprese che dominano l’economia digitale dalla loro capacità di intervento su grandi masse di dati, e quindi sui comportamenti delle persone.

Per ora la classe dirigente cinese ha usato e usa la digitalizzazione delle comunicazioni e delle informazioni come strumento di conoscenza e di controllo sociale, quindi come strumento di potere.

Sarà interessante vedere come si svilupperanno i rapporti tra queste due forme di potere, quello nelle mani del Partito e quello nelle mani dei protagonisti della rivoluzione digitale.

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Commenti

  1. Dino Cofrancesco dice

    12 Maggio 2017 alle 8:16

    Bene, tutto bene. Le considerazioni sulla Cina e la globalizzazione mi sembrando condivisibili. La Cina, però, è una grande potenza economica e militare che reprime il dissenso e vende non poche merci prodotte gratuitamente nei suoi gulag. E’ solo nei confronti nei regimi politici di destra che scattano l’indignazione, l’antifascismo, la richiesta di rotture diplomatiche, l’insopportabile retorica dell’ANPI?

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