Il blocco delle spedizioni commerciali dai porti ucraini sul Mar Nero, conseguenti all’invasione russa, ha provocato una vertiginosa impennata dei prezzi applicati ai diversi prodotti importati, tra i quali il grano le cui quotazioni sui mercati internazionali sono già salite del 10%. Tra i molti punti di vista con cui guardare a questa situazione, c’è un aspetto del quale nessuno parla e che vale invece la pena prendere in considerazione.
Il grano che arriva da quei territori è quello che, in ragione del suo elevato contenuto di proteine, e di glutine in particolare, viene abitualmente utilizzato per produrre la farina ‘manitoba’, dotata di peculiari caratteristiche tecnologiche e abitualmente utilizzata per preparare dolci, pane, pizze e in generale i più classici prodotti da forno. Dunque, quel grano che fino a qualche settimana fa, dall’Ucraina e dalla Russia, perveniva ai nostri pastifici, è in grado di generare una farina speciale che, in forza della grande quantità di glutine al suo interno, è capace di assorbire più acqua, così rendendosi tra le più idonee per impasti elaborati che richiedano una più lunga lievitazione. Andrebbe tutto bene, se non fosse che risaputamente il glutine può rendersi responsabile di patologie diverse, alcune caratterizzate dalla produzione di specifici anticorpi la cui presenza rivela, nel soggetto in esame, una irreversibile incapacità di tollerare il glutine, ed è il caso della celiachia. In altre condizioni patologiche il glutine può evocare risposte allergiche con quadri clinici di allergia respiratoria o di orticaria, ovvero con vere e proprie reazioni di anafilassi grano-dipendente per lo più indotte da esercizio fisico (WDEIA). Ma dal glutine possono anche essere indotti fenomeni reattivi il più delle volte a valenza sistemica, non caratterizzati da presenze anticorpali né da dinamiche strettamente allergologiche, ma riconducibili ad un’emergente entità nosologica oramai universalmente definita «sensibilità al glutine non celiaca» o, più semplicemente, Gluten Sensitivity. È, quest’ultima, una condizione patologica più recentemente aggregata ai disordini correlati al glutine, piuttosto composita sul versante sintomatologico, sostenuta da disfunzioni della componente innata del sistema immunitario e caratterizzata da una buona risposta clinica all’esclusione transitoria ovvero, più opportunamente, ad una riduzione modulata e personalizzata dell’apporto alimentare di prodotti contenenti glutine. La sua incidenza nella popolazione generale risulta essere almeno 6 volte più alta rispetto alla celiachia, con stime che in Italia contano, con buona approssimazione, almeno 5 milioni di persone che ne risulterebbero affette.
A fronte di questi quadri clinici, non sempre evidentemente assimilabili a quella che con diffusa faciloneria viene spesso ritenuta solo una ‘moda’ incontrollata, ci sarebbe da chiedersi quanto, sulla crescente incidenza di tali patologie, non abbia pesato l’uso prevalente di alcune varietà di grano importato che, proprio perché dotate di maggiori quantitativi di glutine, hanno riscontrato un crescente interesse da parte dei panificatori in forza della loro capacità di facilitare e velocizzare la lavorabilità degli impasti. Eppure esistono farine di grano duro coltivato in Italia, più diffusamente nel Sud-Italia, dotate di straordinarie caratteristiche nutrizionali, con percentuali di glutine e di zuccheri più contenute e con composizioni proteiche più facilmente assimilabili e digeribili rispetto ai grani d’importazione oggi prevalenti nel nostro Paese. Si tratta di farine spesso confinate in nicchie circoscritte e territorialmente limitate, affidate alla passione e alla buona volontà di piccole cooperative agricole nate con l’intento di contrapporsi al trend evidentemente in atto nel nostro Paese che ha fatto registrare, in poco meno di dieci anni, la repentina scomparsa di almeno un campo di grano su cinque. Tutto questo, secondo Coldiretti, ha portato in Italia alla «perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati perché molte industrie, per miopia, hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale anziché garantirsi gli approvvigionamenti con prodotto nazionale».
Eppure, a partire dal Farro Dicoccum, la cui semola è ottima per pane, focacce e pizze, e dal Farro Monococco vero e proprio antenato dell’attuale grano duro, ricco di benefiche proprietà nutrizionali, esistono altre tipologie di granaglie accomunate dall’appartenenza alla categoria dei cosiddetti ‘grani antichi’, dai quali ottenere farine meno fini, ma più sane perché ricche di vitamine, enzimi, sali minerali. È il caso, per esempio, delle varietà ‘Timilia’ o ‘Saragolla’ o ‘Perciasacchi’ o della più recente varietà ‘Senatore Cappelli’, caratterizzate da composizioni proteiche più facilmente digeribili, con importante contenuto in vitamine e oligoelementi come potassio, calcio, zinco, magnesio, a basso carico glicemico e a ridotto indice di glutine rispetto ai grani moderni, soprattutto a quelli di importazione.
La produzione di farine dai grani nobili storicamente noti alle nostre popolazioni e la preparazione di prodotti alimentari con tali frumenti del tutto equivalenti per gusto ed aspetto a quelli comunemente utilizzati nell’alimentazione mediterranea, potrebbe rappresentare addirittura un’alternativa terapeutica tanto ricercata a supporto della crescente popolazione di soggetti sensibili al glutine seppur non celiaci. Tra l’altro, i prodotti composti con farine derivanti da grani più facilmente assimilabili e con più basso indice di glutine potrebbero essere destinati non solo alla fascia della popolazione sensibile al glutine, ma anche a tutta la restante popolazione con l’obiettivo di realizzare, in maniera del tutto innovativa, una progressiva riduzione dei livelli progressivamente crescenti di sensibilizzazione patologica dell’intera popolazione nei confronti del glutine.
Si configura l’ipotesi realistica che il ritorno ad una produzione autoctona del grano (ma poi non solo del grano) che riconquisti l’autosufficienza confidando nelle proprie risorse e nelle proprie conoscenze, possa risultare utile per soddisfare le richieste che partono dalle condizioni cliniche di persone con specifiche esigenze alimentari, per consentire loro di evitare riaccensioni sintomatologiche inevitabilmente destinate ad evolvere verso la cronicità, ma anche per superare con successo situazioni che spesso limitano la convivialità e tendono ad escludere i rapporti sociali. Il tutto a supporto di un approvvigionamento di materie prime agricole con prodotto nazionale che, magari escludendo quegli acquisti speculativi denunciati da Coldiretti, possa favorire ed implementare più adeguati e proficui contratti di filiera, dall’agricoltore al consumatore.
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