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Governo (renziano) che va governo (renziano) che viene

15 Dicembre 2016 di Marco Valbruzzi 2 commenti

Se c’era qualcuno che si aspettava una rottura o, quantomeno, una discontinuità nella composizione del governo dopo la sconfitta subita nel referendum costituzionale, è rimasto clamorosamente deluso. Il 64° governo della Repubblicana italiana è, con pochi ritocchi, una fotocopia ingiallita di quello precedente: è cambiato il presidente del Consiglio, ma sono stati confermati quasi tutti i ministri o sottosegretari uscenti e felicemente rientranti.

Neppure si può parlare di “rimpasto” governativo; al limite di un ricollocamento o, più precisamente, di un riposizionamento in vista delle future, sempre più certe, scadenze elettorali. Nemmeno la “consorteria toscana” – così pittorescamente definita da Ernesto Galli della Loggia – è stata sfiorata dalla momentanea auto-rottamazione del loro leader da Pontassieve: Maria Elena Boschi si trasformerà in sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in sostituzione di Luca Lotti, mentre quest’ultimo si gode già la promozione nel kafkiano Ministero dello Sport. Fossimo dotti Lord inglesi parleremmo di musical chairs, ma da italiani preferiamo un’espressione più calzante: valzer delle poltrone.

Dei 20 ministri del nuovo governo Gentiloni, peraltro tutti orgogliosi sostenitori della defunta riforma costituzionale renzian-boschiana, si registrano soltanto due new entries: Valeria Fedeli, fedelissima pasionaria collocata alla vice-presidenza del Senato e Anna Finocchiaro, parlamentare di lunghissimo corso (8 legislature alle spalle, cioè 29 anni tra Palazzo Madama e Montecitorio), esponente di spicco della famigerata “casta” e relatrice del disegno di revisione costituzionale sonoramente bocciato il 4 dicembre dagli elettori. Un caso esemplare di rottamazione meritocratica alla rovescia.

Nell’insieme, la nuova compagine governativa è un po’ più anziana della precedente (da una media di 48,2 anni ad una di 52,2), un po’ più “rosa” (5 donne su 20 oggi, 4 su 22 fino a ieri) e con una maggiore presenza di ministri provenienti dalle regioni del Sud (il 15% con Gentiloni e appena il 9% nell’era di Renzi). Dal punto di vista degli equilibri partitici interni al governo, nulla in pratica è cambiato. Come si vede dalla figura 1, il partito di Renzi possiede ancora la golden share dei ministri, controllando circa il 70 percento degli incarichi governativi, mentre la quota restante è divisa tra esponenti del Nuovo Centrodestra (15 percento), Unione di Centro (5 percento) e personalità “indipendenti” senza tessera di partito (10 percento). Insomma, tante consultazioni (ben 23!), tanti clamori, tanti rumors per nulla.

Fig. 1 – Distribuzione partitica dei ministeri nei governi Renzi e Gentiloni
(inclusi i sottosegretari alla Presidenza del Consiglio dei ministri)

grafico-valbruzzi-gov

C’è, infine, un ultimo grande elemento di somiglianza tra i due governi: la presenza di assoluti neofiti della politica parlamentare o governativa nelle squadre ministeriali. Nell’esecutivo a guida renziana, la metà dei ministri non aveva avuto in passato alcuna esperienza parlamentare o governativa e, tra chi era già stato eletto al parlamento, in media c’è rimasto per meno di 5 anni. La situazione è simile per il nuovo governo Gentiloni: in pratica, un ministro su due non ha né una storia parlamentare alle spalle né un utile passato governativo. La seniority in parlamento della nuova compagine governativa è di 6,2 anni, cresciuta grazie all’ingresso della senatrice Finocchiaro. Ancora più bassa l’esperienza di governo nazionale dei nuovi ministri, inferiore a 3 anni.

C’è una sola, grossa differenza tra il governo Renzi e quello (renziano) di Gentiloni. Se il primo aveva l’ambizione di durare un’intera legislatura, il secondo nasce come un governo a tempo determinato, con una base parlamentare ancora più risicata e uno scopo ben preciso: riscrivere e armonizzare le leggi elettorali di Camera e Senato. È abbastanza curioso, da questo punto di vista, che nel nuovo esecutivo non sia stato previsto l’unico ministero (per le Riforme istituzionali) che avrebbe dovuto perseguire quello scopo. E pensare che la nuova legge elettorale emerga dalle stessi fervide menti che hanno ideato e osannato l’italicum, non è un buon auspicio per l’usato, non sappiamo quanto sicuro, governo Gentiloni.

 

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Commenti

  1. Dino Cofrancesco dice

    13 Gennaio 2017 alle 18:09

    Dati e analisi sono ineccepibili. Forse questo governicchio ci farà vedere cose brutte ma non saranno certo più brutte di quelle che ci hanno fatto vedere gli Scalfaro, i Ciampi, i Prodi, gli Amato, i Monti e tutto l’establishment ferocemente anticraxiano espresso dalla Resistenza e dall’antifascismo di regime (c’è anche un antifascismo serio, minoritario e non di regime su cui ha scritto belle pagine De Felice nel suo ultimo e incompiuto volume della biografia mussoliniana).

    Rispondi
  2. gianfranco pasquino dice

    15 Dicembre 2016 alle 19:21

    mi pare un intervento interessante, garbato e pungente. Ottima la scelta dei dati, decisivi per questo tipo di interventi. Credevo che ci fosse anche un co-autore. In ogni caso, suggerisco di monitorare questo governucchio. Ne vedremo delle brutte.

    Rispondi

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