I gruppi di interesse sono attori costitutivi delle nostre democrazie oppure corpi estranei che ne minacciano il funzionamento attraverso l’attività di lobbying che condiziona negativamente le scelte dei governanti chiamati a decidere nell’interesse generale?
Queste domande hanno evidentemente un carattere retorico perché nell’ultimo quarto di secolo è avvenuto un rovesciamento di orientamento nell’opinione pubblica informata sul tema dei gruppi di interesse e del lobbying. Si è passati dal convincimento che gli uni e l’altro fossero un male grave, una degenerazione del processo democratico, alla convinzione che i gruppi di interesse e il lobbying sono fenomeni fisiologici della democrazia che vanno accettati, se non incoraggiati.
In Italia il mutato orientamento è maturato dopo la scomparsa dei grandi partiti della prima repubblica che filtravano le domande provenienti dalla società civile e non esitavano a screditare i gruppi che tentavano un accesso autonomo alle sedi istituzionali pubbliche per difendere il loro ruolo di guardiani dell’accesso, di gatekeeper delle tante istanze che chiedono di essere ascoltate dai decisori pubblici.
I partiti di oggi sono divenuti prevalentemente comitati elettorali che non sono più in grado di monopolizzare il controllo degli accessi alle sedi decisionali come avveniva durante la prima repubblica. Tale mutamento ha offerto ai gruppi di interesse l’opportunità di operare apertamente mentre il lobbying viene sempre più riconosciuto come un metodo lecito per far valere le richieste che vengono dalla società.
Tuttavia, nonostante l’accreditamento che i gruppi e la loro attività hanno ormai abbastanza acquisito, rimane diffuso il convincimento che il lobbying possa generare distorsioni nel processo decisionale perché offre più opportunità di influenzare le decisioni ai gruppi che dispongono di maggiori risorse. Pertanto numerose sono le proposte di legge miranti a regolamentare l’attività di lobbying sia attraverso la registrazione dei gruppi abitualmente attivi presso le sedi decisionali, che attraverso la documentazione della loro attività (quanti accessi, quali istituzioni contattate, quali issues monitorate) e della quantità di denaro speso per l’esercizio del lobbying. La regolamentazione del lobbying è oggi molto avanzata negli Usa, è stata incrementata in sede Ue e si va affermando anche in diverse democrazie avanzate. In Italia, come è noto, il tema della regolamentazione del lobbying è fonte di diverse iniziative legislative che finora non hanno avuto esito positivo. Ma i tempi sono ormai maturi per la regolamentazione del lobbying anche nel nostro paese.
Va, però, sottolineato che la regolamentazione del lobbying offre un contributo limitato all’inveramento di una delle promesse fondanti della liberal-democrazia, cioè la promessa della eguaglianza delle opportunità, per ciascuno dei singoli interessi in gioco, di influire nella stessa misura nella determinazione delle decisioni finali. Infatti, la regolamentazione del lobbying si limita a favorire la trasparenza del processo decisionale in quanto aiuta – se opportunamente monitorato – a rendere evidenti gli interessi in ballo quando certe decisioni vengono adottate.
Naturalmente la trasparenza è un obiettivo importante perché contribuisce ad evitare collusioni a favore di alcuni e a danno di molti. Ma è bene chiarire che l’eguaglianza delle opportunità rimane in ogni caso un obiettivo irraggiungibile perché il circuito decisionale «è governato dalla logica della competizione pluralistica la quale – se funziona correttamente – favorisce la dispersione del potere insieme all’apertura e alla trasparenza del processo decisionale, ma non può assicurare eguali opportunità di accesso e lobbying. Queste ultime risultano associate in modo differenziato a ciascun gruppo perché dipendono in larga misura dalla diversa dotazione di risorse – finanziarie, organizzative, di expertise, di prestigio – di cui i diversi interessi dispongono prima di entrare nel circuito della competizione pluralistica. In altri termini, i gruppi entrano nel circuito decisionale in condizioni di diseguaglianza» (L. Mattina, I gruppi di interesse, 2010, p. 209). Alla fine, l’eguaglianza delle opportunità si traduce nella eguale opportunità di essere diseguali.
Ciò non significa che le decisioni siano inevitabilmente destinate a favorire i gruppi ricchi di risorse a danno dei tanti che ne hanno di meno perché i governanti tengono in grande considerazione le preferenze degli interessi diffusi, non foss’altro perché rappresentano spesso milioni di cittadini il cui voto è indispensabile per quanti desiderano essere rieletti. Inoltre, anche i gruppi sono spesso indotti dalla logica della competizione pluralistica a pretendere dai governanti la correttezza del gioco competitivo che può funzionare solo se il sistema istituzionale garantisce il rispetto della legge e la sanzione degli abusi. In più, quando i governanti sono affiancati da burocrazie competenti e responsabili possono disporre di conoscenze non inferiori a quelle appannaggio dei grandi gruppi e sono perciò in grado di decidere in autonomia senza dipendere dalle informazioni fornite dalle grandi industrie o dalle multinazionali che dominano la World Wide Web.
In ogni caso, il rischio di degenerazioni collusive è minore quando sia i gruppi che i governanti sono inseriti in un sistema di controlli incrociati che nelle liberal-democrazie funziona bene se esistono forti partiti, un parlamento che esercita con pienezza di poteri il controllo sull’esecutivo, un sistema giudiziario indipendente, burocrazie autonome e competenti, una società civile abbastanza autonoma dallo stato. In altri termini, l’attività di lobbying può essere efficacemente regolamentata quando i gruppi operano all’interno di democrazie che presentano elevati standard qualitativi. Ma questa è merce rara, di questi tempi.
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