La guerra spariglia ogni logica. Dovremmo averlo capito dopo millenni di stragi, guerre di conquista e di religione, razzie e barbarie di ogni tipo, spesso raccontate dai vincitori che le trasformano in opere di civilizzazione, di democratizzazione, di conversione. Ma ricordare non serve, se non alle parate e alle celebrazioni che si sciolgono nel solvente fluido e inesorabile della Realpolitik, non solo quella degli stati, ma anche quella individuale.
La guerra, così potente nel ribaltare le convenzioni di quella che amiamo definire vita civile non riesce comunque ad intaccare ciò che siamo, le fondamenta dei conflitti che coltiviamo nel segreto delle nostre esistenze così facili da vendere come consapevoli, sostenibili, circolari, pacifiste con qualche post o bandierina nel profilo. Nelle nostre esistenze di ogni giorno, e ognuno lo sa bene, coltiviamo vendetta e sopraffazione, violenza e sopruso, opportunismo e falsità declinate nella misura che si adatta all’ampiezza di ciò che siamo e di ciò che facciamo, dalla fila al supermercato, ai grandi affari, dal condominio alla piazzetta del paese, convinti che il quotidiano ci regali una licenza speciale. Invece è li che va stanata la radice dell’odio e del collaborazionismo di cui la grande storia è solo un riflesso. Veramente crediamo si possa pretendere dagli stati ciò che noi neghiamo costantemente con la nostra attitudine e il nostro opportunismo? È lì che dovremmo cambiare. Ma non succederà. La guerra torna ad esigere il suo tributo perché siamo costantemente chini ad aprire le piccole falle che porteranno la diga ad esplodere. La focale cambia con l’avvicinarsi del giudizio. Non vi sono se e non vi sono ma, tutti compiacenti a una distruzione che neghiamo con le parole ipocrite altisonanti tipiche della autocelebrazione, altro alleato potente degli oppressori. Distruzione che pensiamo degli altri finché non bussa alle nostre porte, il piccolo feudo di un egoismo che non ha presidi speciali, sempre connivente e omissivo con chi si erge per sottomettere l’altro.
La guerra con la sua brutale interrogazione rivela lo stato delle cose. Ancora oggi, in tempi molto lontani da barbarie come quelle narrate nel De bello gallico e vendute per gloria di Cesare, il discrimine della rivelazione è la prova muscolare, con buona pace di quelli che mentendo a se stessi immaginano un mondo dove si possano dissimulare ad libitum coinvolgimento e interesse che non corrispondono in nulla alla vita. Il re è nudo, come si dice. La rete di connivenze malcelate dei traffici di armi, legami commerciali, interessi reciproci posti sempre al vertice della gerarchia di valori e delle diplomazie, qualunque sia l’interlocutore, è il patto con un diavolo che non manca mai di riscuotere la sua parte. Le ondate di solidarietà devono essere verificate dentro un discrimine che, come la guerra, non lascia dubbi: chi sarebbe disposto ad avere i missili che cadono nel proprio giardino pur di difendere gli altri? Sono convinto che al momento la risposta sia estremamente chiara. Chiara perché si pensa di potersela cavare così, qualche morto nella periferia europea, una democrazia negata, una sete di espansione soddisfatta, in un profluvio di informazione sempre in bilico con la saprofagia.
Non vi è esercizio di retorica, sdegno, tatticismo, buoni sentimenti ancor meno, che possa resistere alla furia di una minaccia trascurata, che si nutre della debolezza altrui, la nostra, e la cui prerogativa, come mostra la storia, è quella di alzare la posta. Fino a che le è permesso.
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