Commentando sul «Foglio» di qualche mese fa il volume di Tim Bale e Cristobal Rovira Kaltwasser, Riding the populist wave. Europe’s maintream right in crisis (Cambridge U.P., 2021), Luciano Capone ha rilevato che «la lunga e silenziosa crisi dei ‘moderati’ è un serio problema per il futuro delle democrazie europee». In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna – per limitarci a questi paesi – i vecchi partiti moderati, liberali, europeisti («le forze democratico-cristiane, popolari, moderate e liberalconservatrici, sono quelle che hanno costruito l’Europa, basta guardare il profilo politico-culturale di Adenauer-De Gasperi-Schuman»), oggi quegli stessi partiti vengono dissanguati dal rifluire dei loro elettori di un tempo verso movimenti sovranisti, antiglobalisti, identitari.
La ‘rivoluzione silenziosa’, seguita al ‘68 ha segnato profondamente la sinistra che sembra aver adottato definitivamente «comportamenti e preoccupazioni post-materialisti su temi come la pace internazionale, il rispetto per l’ambiente e i diritti civili». Lasciando la destra mainstream europea «di fronte a quattro sfide molto importanti, a cui non sa dare ancora risposte precise: l’integrazione europea, l’immigrazione, i diritti civili e le questioni etiche, il welfare state». Sotteso a questa analisi è un palese giudizio di immaturità etico-politica. Se non si libera dai Salvini, dalle Meloni e dai loro ‘compagni di merenda’ europei, i partiti che hanno ereditato gli elettori liberal-moderati non saranno mai una credibile forza di governo.
Confesso che mi ha sempre infastidito l’invito che una parte politica rivolge all’altra a mettersi al passo coi tempi, a rompere col passato: una democrazia liberale a norma, si ricorda, ha bisogno tanto di conservatori che di progressisti (lo disse Giovanni Giolitti nel grande discorso che segnava il suo esordio nella politica nazionale), ma gli uni e gli altri debbono essere ‘moderni’, riconoscersi in valori comuni. Si tratta di un atteggiamento solo in apparenza ragionevole giacché a ispirarlo è sempre l’ideologia, quell’intramontabile ideologia italiana che nutre incrollabili certezze sul ‘bene comune’ e sulla natura e sull’identità dei nemici della ‘società aperta’. La scepsi antica, lo scetticismo di Montaigne e di David Hume nel nostro paese non si sono mai radicati col risultato, paradossale, che le ‘famiglie spirituali’ in conflitto non solo difendono (legittimamente) i loro valori e i loro interessi ma si credono in diritto di indicare alle altre i modi per rendersi rispettabili. Ne risulta un confronto politico a suon di slogan – populisti! Sovranisti! – o, dall’altra parte: – antioccidentalisti! Servi del capitalismo finanziario internazionale! – etc.
Credo che il compito dello studioso non sia quello di unirsi al coro dei consiglieri del Principe ma quello di porre, di volta, in volta, la domanda socratica: «ti estì? Che cosa intendi quando dici…?» Accusare una parte politica di essere contro l’integrazione europea è pura retorica da talk show televisivo se non specifica che cosa si rifiuta delle attuali istituzioni europee, tenendo presente che, ad es., non tutta la Lega è schierata sulle posizioni di Alberto Bagnai. Parlandone, potrebbe anche venir fuori, da parte delle impresentabili destre, l’adesione a un modello federale che, come quello nordamericano, esclude dalle competenze dell’Unione gran parte del diritto civile e penale e che, pertanto, non ha nulla di riprovevole in sé; e ci si potrebbe trovare, altresì, d’accordo sul fatto che non compete ai funzionari di Bruxelles sconsigliare l’uso di nomi ‘ebraici’ come Giovanni e Maria. Potremmo essere, invece, in totale disaccordo sulla richiesta rivolta all’U.E di sovvenzionare l’erezione di muri di filo spinato ma questo non proverebbe che le destre in tema di immigrazione siano irrimediabilmente razziste. L’immigrazione è una tragedia epocale, come non si stanca di ricordare Papa Bergoglio e non se ne vedono soluzioni facili, né a destra né a sinistra. Può essere ipocrita l’invito ad «aiutarli a casa loro» ma non è meno tartufesco il buonismo irresponsabile di chi si preoccupa degli sbarchi ma non della sorte riservata alle persone sbarcate (molte delle quali reclutate dalla malavita).
I diritti civili e le questioni etiche? Sì, le destre non hanno dato ‘risposte precise’ ma quali sono le risposte delle sinistre? Per restare in Italia, si chiede ai conservatori di unirsi alle proteste di piazza per la bocciatura del ddl Zan? E non è forse vero che anche a sinistra la filosofia politica sottesa a tale ddl non sia così condivisa?
E che dire del Welfare State? Può essere accusata di immaturità una destra che ci abbia ripensato?
Non è esistita da sempre una ‘destra sociale’, la cui componente fascista ha creato in Italia un modello di Stato interventista nell’economia che James Burnham metteva accanto al New Deal di Roosevelt e alla pianificazione stalinista? Il problema reale è quello di stabilire quanto welfarismo si vuole, in quali ambiti sociali, e attingendo a quali risorse. In questo senso, anche la sinistra avrebbe non pochi problemi su cui meditare, a cominciare dai quartieri operai che sembrano averla abbandonata identificandola con l’establishment politico ed economico.
Insomma sui grandi temi all’o.d.g. in questo non esaltante inizio di millennio, nessuno a destra e a sinistra sembra avere le idee chiare. Sul piano culturale poi il caos è indescrivibile. Nel dopoguerra gli intellettuali comunisti del Sud si dicevano ‘crociani’ giacché nel confronto classico tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi su liberalismo e liberismo, si riconoscevano nelle tesi del primo; oggi non c’è intellettuale di sinistra che non le giudichi aberranti.
Giornalisti come Luciano Capone elaborano teorie in funzione di ben precisi progetti politici ma noi oggi più che mai abbiamo bisogno di analisti come Federico Rampini e Luca Ricolfi che ci dicano come stanno le cose. Poi saremo noi a decidere se volerle cambiare o meno.
Giuseppe Ieraci dice
Sono d’accordo con Dino Cofrancesco che bisogna partire da fatti e dati. Ma questo – lui lo sa bene – alla fine non risolve pienamente la scelta sui “valori”. Per lasciare intendere cosa voglio dire, me la cavo con un aneddoto personale.
Recentemente ho discusso con un amico triestino, che – a seguito di quella discussione – per un po’ di giorni mi ha tolto il saluto. Lui soteneva che il porto di Trieste è un grande traino dell’economia mediterranea, forse mitteluropea. Gli ho fatto notare che il porto di Trieste movimenta solo alcune centinaia di migliaia di TEU all’anno, contro i 4,5 milioni di Gioia Tauro e i circa 2,5 milioni di Genova. (Per avere un’idea di che cosa sto parlando, si consideri che a Dubai – se non sono millanterie levantine – “giraro” 20 miloni di TEU). L’amico mi ha detto che non capivo una “mazza”, che i porti si specializzano (ma si?, davvero?), poi ha riconosciuto che effettivamente sui TEU avevo ragione, ma che contavano altri dati che lui sciorinava (gas liquido, merci varie, etc.).
Eccovi serviti i dati. Alla fine la scelta valoriale (Trieste caput mundi o no?) è quasi irrisolvibile. Qualche filosofo ci vuole se non volete smettere di salutarvi persino tra amici.
Andreas Fact dice
Ma alla luce di tale vuota e pseudo colta Retorica degna della prima lezione in classe di dottrine delle scienze politiche, priva di contenuti economici e dal tenore autocompiaciuto, quali paradigmi economici adottare per scongiurare come tra le righe afferma l’Istat una bomba disoccupazionale senza precedenti?
Dino Cofrancesco dice
gnente gnente ce l’ha co’ me?
Michele Magno dice
Caro prof. Cofrancesco, come al solito lei formula domande sensate e sviluppa riflessioni illuminanti. E tuttavia sostenere che Luciano Capone fa politica mentre Federico Rampini e Luca Ricolfi ci dicono solo come stanno le cose, mi sembra affermazione ardita. Come il primo, anche i secondi -ciascuno a modo proprio- stanno non sopra, ma dentro la mischia. Parafrasando Weber, la cattedra non è per i profeti e i demagoghi, ma nemmeno per i giornalisti, i sociologi e filosofi (per non fare nomi, penso a Cacciari e Agamben), che un giorno sì e l’altro pure ci spiegano che la sinistra non è mai la loro sinistra. Un caro, saluto, Michele Magno
Dino Cofrancesco dice
Stimo molto Michele Magno e proprio per questo il suo commento mi stupisce. Capone e ‘Il Foglio’ perseguono strategie politiche assolutamente legittime ma che li portano ad ‘etichettare’ i loro avversari a volte in maniera pesante e discutibile, facendo di ogni erba un ‘fascio'(è proprio il caso di dire): v. il trucismo etc. Rampini e Ricolfi hanno anche loro valori ai quali si ispirano ma intendono weberianamente il loro mestiere– anche a costo di rendersi odiosi alle sinistre, ovvero alle loro aree ideologiche di riferimento.