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I liberalismi sono due. C’è quello individualistico, c’è quello comunitario

6 Febbraio 2023 di Dino Cofrancesco Lascia un commento

Je constate simplement et me contente de fixer le point où nous sommes.

Raymond Aron

Nella rubrichetta «Vistodagenova», che curo dal 2020 sul «Giornale del Piemonte e della Liguria», il 17 gennaio u.s. me la sono presa col brillante e acuto Michele Serra che, nella sua «Amaca», Che cosa Pompei ci racconta («La Repubblica» dell’11 gennaio) aveva scritto: «alle parole ’nazione’ e ‘nazionale’ azionate sempre le sirene: nove volte su dieci non sbaglierete». Michele Serra, avevo scritto, qualche volta «distilla spirito di patata. Davvero dovremmo azionare le sirene al solo sentir parlare di ‘nazione’ e di ‘nazionale’? E per quale ragione? Di questo passo finiremo per censurare Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni e Giuseppe Mazzini per i quali la nazione era un forte e impegnativo simbolo di identità». A ripensarci bene, però, sono stato ingiusto con Serra, nel senso che non ho tenuto conto del fatto che la sua ironia per tutto ciò che sa di ‘comunità’ (radici, nazioni, appartenenze) viene da una cultura neo-illuministica che, diventata ormai egemone, ha fatto degli individui uti singuli i titolari della sovranità politica e di ogni tipo di diritto. Nel saggio L’eredità della grande Rivoluzione (1989) ora (ora ne L’età dei diritti, Ed. Einaudi, Torino 1990), Norberto Bobbio, divenuto da tempo il padre nobile del liberalismo italiano in un paese che sembra aver dimenticato Luigi Einaudi e diffida di Benedetto Croce, aveva scritto: «La democrazia moderna riposa sulla sovranità non del popolo ma dei cittadini. Il popolo è un’astrazione che è stata spesso usata per coprire una realtà molto diversa. È stato detto che dopo il nazismo la parola Volk è diventata impronunziabile. E chi non ricorda che l’organo ufficiale del regime fascista si chiamava ‘Il Popolo d’Italia’?». Ma non si chiamava «Il Popolo» anche il quotidiano fondato da Giuseppe Donati nel 1923, forse anch’esso divenuto sospetto per la sua dimensione cattolico-comunitaria? E Bobbio prosegue: «Non vorrei essere frainteso, ma anche la parola ‘peuple’ dopo l’abuso che se ne fece durante la Rivoluzione francese è diventata sospetta: il popolo di Parigi abbatte la Bastiglia, compie le stragi di settembre, giudica e giustizia il re. Ma che cosa ha a che fare questo popolo coi cittadini di una democrazia contemporanea? […] Via via che la democrazia reale si è andata sviluppando, la parola ‘popolo’ è diventata sempre più vuota e retorica, anche se la nostra costituzione, anch’essa, enuncia il principio che «la sovranità appartiene al popolo». In una democrazia moderna chi prende le decisioni collettive, direttamente o indirettamente, sono sempre e soltanto i cittadini uti singuli, nel momento in cui gettano la scheda nell’urna.

In realtà, si tratta di una visione mitica o meglio astrattamente giuridica, che pone al centro dell’etica politica – per citare lo splendido saggio di Friedrich A. Hayek, Individualismo, quello vero e quello falso (ed. it. Rubbettino, 1997) – «l’esistenza di individui isolati o indipendenti, anziché partire da uomini la cui natura e carattere vengano complessivamente determinati dalla loro esistenza nella società». Forse da qualche parte, nel mondo libero, ci sono elettori che votano in piena autonomia, dopo aver letto accuratamente i programmi dei vari partiti che competono per il potere: certo, nel nostro paese, ognuno deposita la scheda nell’urna, condizionato dalla famiglia ideologica di appartenenza, dalla religione, dalla political culture interiorizzata o fatta propria per libera scelta.

Bobbio è stato un grande professore – i suoi commenti a Locke, a Hobbes, a Kant, a Hegel, a Marx, a Cattaneo a Gramsci etc. sono esemplari per chiarezza d’analisi e profondità interpretativa – ma come teorico della democrazia, alla quale ha dedicato tante pagine, non è stato certo pari, per limitarci a un solo nome, a un Raymond Aron. Nei suoi scritti sul governo del popolo non compaiono (quasi) mai i classici del pensiero democratico dell’800: Giuseppe Mazzini, Jules Michelet, Edgar Quinet, Lamennais, Abraham Lincoln e mai gli viene il sospetto che il c.d. ‘populismo’ (così diffuso nella filosofia politica ottocentesca) abbia un qualche rapporto con la democrazia. C’era in lui un’ossessione individualistica che, per adoperare una metafora, lo portava dalla sponda lockeana a quella socialista senza bagnarsi nel fiume della democrazia: di qui l’adesione convinta all’azionismo, che del socialismo e del liberalismo (individualista) aveva fatto un’endiadi. Solo gli individui contavano ai suoi occhi ed era socialista perché non voleva abbandonarli alla legge della giungla del mercato ma metterli sotto la protezione di uno Stato dispensatore di diritti sociali.

Nel memorabile testamento spirituale che Raymond Aron consegnò all’ultima lezione al Collège de France, Libertà e uguaglianza (ed. it. EDB, 2015) si legge: «Le nostre società sono legittime agli occhi dei loro membri, ma hanno come unico ideale quel­lo di permettere a ognuno di scegliere la sua strada. Condivido questo ideale. Partecipo a questo modo di pensare della società in cui vivo. Ma co­me osservatore delle società nella storia, mi in­terrogo: è possibile conferire stabilità a regimi democratici il cui principio di legittimità sono le elezioni e il cui ideale è il diritto o la libertà per ognuno di scegliere non solo la sua strada nella vita, il che è giusto, ma anche la sua concezione del bene e del male? Oggi mi sembra estrema­mente difficile, sia nei licei che nelle università, parlare seriamente dei doveri dei cittadini. Penso che chiunque si avventurasse a farlo apparirebbe come appartenente a un mondo scomparso».

Non credo che Bobbio avrebbe condiviso la malinconia di Aron. Per lui il problema era quello di modernizzare il paese, guarendolo da ogni tentazione e nostalgia comunitaria: da ultimo dichiarò persino di non vedere differenze sostanziali tra fascismo e comunismo in quanto prodotti, entrambi, dall’anti-individualismo.

Nell’epoca in cui, per citare il magistrale articolo di Marcello Veneziani, Agnelli convertì la sinistra al capitale («La Verità», 25 gennaio u.s.) l’antifascismo ha sostituito l’anticapitalismo – «il nemico da odiare non è più il padrone sfruttatore ma il fascista, vero o presunto, anche se è un poveraccio» – il pensiero di Bobbio è diventato una sorta di pensiero unico. Se non proprio il fascismo, le bestie nere che terrorizzano oggi i progressisti di destra e di sinistra sono il sovranismo, il nazionalismo, il populismo, fantasmi tutti mobilitati contro l’individuo, le sue libertà, i suoi diritti e segnati da una dimensione di Gemeinschaft vista come il segno stesso del demonio. Nel nome di Bobbio che dell’anti-organicismo fece la sua battaglia, si ritrovano oggi il liberale un tempo eletto nelle liste comuniste (come indipendente, beninteso) e il liberale che fu vicino a Marco Pannella (anche se non al suo pacifismo gandhiano); il radical chic antimeloniano e il pieddino al quale – dimentico del feroce antiamericanismo d’antan – bastano l’antifascismo e l’Anpi per salvare l’anima; il socio dell’Istituto Bruno Leoni e il frequentatore della Fondazione Gramsci. Ormai è questo che passa il convento (neo)liberale.

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