L’epidemia da Coronavirus ha colto tutti di sorpresa e ha creato difficoltà notevoli nella gestione dell’emergenza. Le ragioni di questo si possono far risalire a diverse motivi. In primo luogo sta il colpevole ritardo (alcuni mesi a quanto è dato di capire) con cui la Cina ha dato l’allarme. Un comportamento che si spiega con il fatto che la Cina è un paese retto da una dittatura, dove non esistono le libertà politiche e civili.
A ciò si aggiunge la natura del virus, che è nuovo, si diffonde rapidamente e rispetto a cui non esistono ancora vaccini e cure rapide. I contagiati in cui si manifestano i sintomi, com’è noto, debbono sottoporsi a lunghi trattamenti nei reparti di terapia intensiva. Fatta salva questa difficoltà comune a tutto il mondo, c’è però una cosa che colpisce.
L’Italia, che si è attivata più rapidamente di altri paesi europei nel segnalare i casi di contagio e per cercare (bene o male) di fronteggiare la diffusione del virus, è ben presto balzata ai primi posti per il numero di vittime, con una incidenza percentuale maggiore di quella registrata in altri paesi. Questo problema è già stato affrontato, in una prospettiva europea, da Pino Pisicchio in un intervento pubblicato su Paradoxa-Forum del 12 marzo scorso (La Pandemia, i decessi e il caso Italia. C’è un’uniformità di dati alla fonte?), ma non è forse inopportuno tornare sull’argomento da una prospettiva diversa.
A cosa occorre attribuire questa poco invidiabile eccellenza che ha avuto conseguenze non piacevoli sulla reputazione dell’Italia, additata subito come paese infetto, pericoloso, da evitare? Si sono avanzate diverse ipotesi. Una maggiore virulenza del virus nel nostro paese, un insieme di sfortunate coincidenze, etc. Adesso sembra farsi strada un’altra, più attendibile spiegazione.
In una intervista rilasciata al «Corriere del Veneto» lo scorso 8 marzo, la virologa Ilaria Capua ha osservato che i morti sono meno di quanto si creda perché da noi si registrano come morti da coronavirus persone che, pur affette da patologie molto gravi, risultano positive al tampone. In altri paesi ci si comporta in modo diverso, in Inghilterra, ad esempio, e citiamo le parole della scienziata, «prima si registra la vera causa del decesso e poi si annota se era positivo o meno a questo o a quel virus». In Italia, invece, anche se il paziente deceduto era affetto da una patologia gravissima, nel caso sia positivo al tampone lo si registra come morto per coronavirus.
Porre rimedio a questo eccesso di zelo non è semplice. Come ha ricordato in una intervista a «La Repubblica» del 27 febbraio scorso, il dottor Walter Ricciardi, consulente del Ministero della salute, in Italia «per i noti motivi di decentramento regionale, ci atteniamo a classificazioni dettate dalle regioni e soltanto nell’ultima settimana stiamo cercando di introdurre un correttivo con una valutazione da parte dell’Istituto Superiore di Sanità, che però non ha a disposizione le cartelle cliniche e quindi fa fatica a entrare nel merito». Infatti, l’Istituto superiore di sanità ha il potere di investigare ma «deve mandare i NAS per avere le cartelle». Una situazione che ci mette in condizione di inferiorità rispetto agli altri paesi se si considera, come rileva Ricciardi che «il carattere maniacale dell’accertamento delle cause di morte presente in altri Paesi europei ha chiare motivazioni di reputazione e di comunicazione».
Al di là di ogni possibile polemica politica, che non ci interessa, questo episodio si presta a una riflessione di carattere generale. Nel mondo globalizzato in cui dobbiamo vivere il ruolo dello stato nazionale non è tramontato, come potrebbe far credere la constatazione che molte decisioni sono oggi di carattere sovranazionale. Al contrario gli stati nazionali continuano a svolgere una funzione essenziale. Anzitutto come interlocutori delle organizzazioni internazionali cui sono demandati compiti sempre maggiori. Inoltre, come i soggetti responsabili dell’implementazione delle misure concordate. Infine come custodi e garanti della credibilità di un paese. In questi ultimi decenni, sulla spinta di sciagurate parole d’ordine devoluzioniste o federaliste, abbiamo allegramente indebolito il nostro ‘sistema paese’.
Adesso, con colpevole ritardo, stiamo cominciando ad accorgerci che la credibilità e la coesione nazionali sono ingredienti essenziali non solo per la politica estera ma anche per la politica economica (sostenibilità del debito pubblico, capacità di attrarre investimenti, etc.). Speriamo che, per una eterogenesi dei fini virtuosa, anche la infausta crisi del coronavirus acceleri questa necessaria presa di coscienza.
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