Come sostiene Emidio Diodato nel fascicolo 2/2023 di «Paradoxa»: «ci troviamo nel mezzo della transizione degli equilibri geopolitici». La guerra in Ucraina ha segnato un punto di svolta nel passaggio da un ordine liberale internazionale di matrice occidentale e centrato sugli Stati Uniti a un nuovo ordine mondiale che deve rispondere a criteri di legittimità di portata planetaria. Nell’attuale transizione, il ruolo internazionale della Cina è tema di grande dibattito e di cruciale importanza considerate le risorse materiali del paese e le ambizioni globali della dirigenza cinese, rese manifeste con il lancio di tre iniziative Global di Pechino: Global Development Initiative, Global Security Initiative e Global Civilisation Initiative.
Lo slancio globale della Cina sotto la dirigenza di Xi si è tradotto in una postura più proattiva – se non assertiva – del paese negli affari internazionali, nonché nell’abbandono della tradizionale strategia di basso profilo in politica estera per adottare la linea del battersi per ottenere risultati. All’impegno di Pechino nell’articolare un ordine post-occidentale e post-liberale, interpretato dalla letteratura sul tema principalmente in termini di revisionismo o riformismo, si è tuttavia accompagnata una politica di chiusura, culminata con lo scoppio della pandemia da Covid-19 nella cosiddetta «zero Covid policy».
L’emergenza sanitaria ha esacerbato il processo di involuzione del paese, già avviato con la revisione costituzionale approvata il 18 marzo 2018 con 2.958 voti favorevoli e solamente due contrari e tre astenuti. Abolendo il limite massimo dei due mandati per le cariche di Presidente della Repubblica e di Vicepresidente, la modifica costituzionale ha rafforzato la posizione di Xi e riaffermato la supremazia del partito comunista cinese sull’amministrazione statale. Il XX Congresso ha confermato il ruolo guida del partito e la tendenza di accentramento del potere nelle mani del leader cinese, provocando lo smantellamento di quella ‘leadership collettiva’ realizzata da Deng Xiaoping per garantire i meccanismi di condivisione del potere.
Stabilità e sicurezza si sono imposte come parole chiave del discorso politico pubblico cinese richiamando da un lato logiche isolazioniste tese al perseguimento degli obiettivi nazionali – primo tra tutti quello di autosufficienza in settori chiave per lo sviluppo industriale e scientifico del paese –, dall’altro evidenziando comunque l’impegno della Cina come grande potenza responsabile in grado di offrire ‘soluzioni cinesi’ ai dilemmi della sicurezza globale.
Tale apparente contraddizione tra politiche di chiusura e di apertura emerge nei dodici punti della posizione di Pechino sulla guerra in Ucraina e nel concept paper relativo all’iniziativa di sicurezza globale cinese, pubblicato contestualmente al primo. La definizione stessa di «sicurezza indivisibile» e l’approccio olistico di tale visione che vede Pechino impegnata nel mantenimento della sicurezza sia nei settori tradizionali che non, come ad esempio quello culturale, stanno rendendo la Cina «più chiusa che mai», come ha sottolineato Ian Johnson su «Foreign Affairs», proprio mentre assume un ruolo globale.
Più che davanti a un dilemma di sicurezza tra grandi potenze, Pechino si trova ad affrontare un dilemma identitario che fatica a dare risposta a domande quali «Chi è la Cina?» e «Che tipo di mondo vuole? », come già notato da Qin Yaqing, presidente della «China Foreign Affairs University». L’atteggiamento equilibrista della dirigenza cinese nei confronti della guerra e di quell’ «amicizia senza limiti» sancita da Vladimir Putin e Xi Jinping all’apertura delle Olimpiadi invernali 2022 ha reso evidente il conflitto di ruolo che la Cina si trova ad affrontare, una condizione che secondo la teoria dei ruoli introdotta nella scienza politica internazionalista da K. J. Holsti nel 1970 deriva sì dalle aspettative non coincidenti di Ego e Alter, ossia la Cina e gli altri attori della scena globale, ma anche dai conflitti tra ruoli diversi impersonificati da uno stesso attore.
Questo conflitto identitario non rappresenta una novità. Per fare qualche esempio, si pensi ai ruoli concomitanti di «paese in via di sviluppo» e di «grande potenza», o ancora, all’ascesa di un «Chinese Security State», come lo hanno definito Wang Yuhua e Carl F. Minzner, e l’ascesa di un «Civilizational State», ovvero uno stato sui generis che secondo Zhang Weiwei mette in discussione molti dei presupposti occidentali ritenuti ‘universali’ in virtù dell’eccezionalismo dell’esperienza cinese e dei suoi «5.000 anni di civiltà».
Tra i tanti ruoli globali assunti da Pechino, di particolare rilievo è quello di promotore di una «comunità dal futuro condiviso per l’umanità». Si tratta di un concetto caratterizzato dalla coesistenza pacifica tra le diverse civiltà che, tuttavia, si scontra con la rinnovata centralità cinese nella costruzione di un nuovo ordine mondiale. Eloquente in questo senso è il titolo della nuova serie del tabloid nazionalista «Global Times» dedicata all’iniziativa per la civiltà globale, Xivilisation, che chiarisce con un abile gioco di parole il nesso tra l’ideologia di Xi e la diffusione della sua visione di mondo finalizzata alla creazione di un ordine giusto e stabile. In un importante discorso tenuto il 2 giugno 2023, Xi ha indicato come l’edificazione di una moderna civiltà cinese che sappia integrare i principi fondamentali del marxismo con le realtà specifiche della Cina e con la sua raffinata cultura tradizionale rappresenti lo strumento più importante per il partito per raggiungere il suo successo e realizzare l’indipendenza intellettuale e l’autosufficienza.
La partita della Cina per diventare leader del Sud globale si giocherà dunque sulla capacità di conciliare la narrazione dell’eccezionalismo cinese con quella di apertura e inclusione, ovvero nell’abilità di sfruttare la propria ambivalenza di ruolo per proporre un’alternativa credibile alla guida americana.
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