[Editoriale di «Paradoxa» 1/2023, Orgogliosamente Occidente, a cura di Gianfranco Pasquino]
Quando si scatta una foto o si mette mano a un ritratto è opportuno, normalmente, che il soggetto non si muova, per evitare che l’immagine risulti sfocata. In queste pagine accade esattamente il contrario: la messa a fuoco dell’Occidente è il risultato della rinuncia metodologica ad immobilizzarlo in una qualche rigida definizione identitaria, così che, come in un volto, la libertà di movimento delle sue espressioni più caratteristiche possa lasciarne affiorare l’inconfondibile fisionomia complessiva. Certo, qualche definizione qua e là compare, come quella proposta in avvio dal Curatore, per cui l’occidente è una «combinazione giudiziosa di geografia e storia, politica democratica, valore della persona» (p. 15). Ma, in questo come in altri casi, il lettore è giudiziosamente avvertito del fatto che si tratta comunque di formulazioni orientative, operative, provvisorie, necessariamente manchevoli di questo o quell’elemento essenziale: e questa strutturale resistenza alla definitività segnala una costitutiva incompiutezza, che non è affatto – su questo gli autori sono compattamente schierati – un segno di crisi o di declino, ma è anzi un motivo d’orgoglio, che va pensato, articolato, rivendicato.
Il punto è che l’Occidente non è un dato di fatto, semmai – per dirla con i termini di un classico che non compare, ma certo non sfigura tra i vari numi tutelari chiamati qui in causa – un telos: quando, con una mossa teorica assai prossima a quella qui tentata, Husserl ribalta la denuncia della Crisi delle scienze europee nel rilancio di un’idea più profonda e di scienza e di Europa (in senso ovviamente non geografico), lo fa distinguendo tra le scienze di fatto, che creano «meri uomini di fatto», e il movimento della (vera) scienza in direzione del senso, ossia di un’esistenza razionale, perciò libera e responsabile; movimento che l’Europa, prima greca e poi moderna, ha indicato all’umanità e che è strutturalmente in fieri dunque incompiuto. Il che però non è un limite, perché in questo scarto tra fatto e senso, si apre lo spazio per quella straordinaria possibilità, da cima a fondo occidentale, che è il pensiero critico, la messa in questione di tutto e dunque anche di sé, che non è sintomo di decadenza o cedimento ad una qualche cancel culture, ma anzi prova di robuste difese immunitarie: al punto che, con un’operazione raffinata e al limite del paradosso, si può provare a rintracciare persino nel Tramonto dell’Occidente di Spengler – libro «ingiustamente» famoso (Schiavone, p. 30) – una fedeltà, forse malgré soi, all’eredità dell’illuminismo (Gherardi).
Oltre a non essere un dato di fatto, l’Occidente non è, a rigore, nemmeno monoliticamente uno: e non solo nel senso della proliferazione confusa di versioni e autointerpretazioni, che ne rende la nozione oltremodo «scivolosa» (Tuccari, p. 67), ma in quello ben più profondo per cui la differenz(i)a(zione) non è un accidente, ma la sostanza stessa della sua identità. Dalla pluralità di forme di capitalismo e di istituzioni economiche alla montesquieuiana tripartizione dei poteri; dal conflitto permanente tra etica della convinzione ed etica della responsabilità al politeismo dei valori; dalla differenziazione tra sfere di competenza autonome e irriducibili (religione, politica, diritto, economia, etica, ecc.) alla separazione tra potere e informazione: tutte queste fissioni sono l’Occidente. Il quale è l’introiezione del risvolto non soltanto tragico, ma anche e soprattutto generativo dell’incomponibilità di queste fratture e della rinuncia ad ogni nostalgia di semplicità e semplificazione.
Sono considerazioni che potrebbero sembrare eccessivamente, per non dire astrattamente, teoriche e che però, se si segue il metodo contrastivo cui invita il Curatore, si rivelano immediatamente in tutta la concretezza di una precisa presa di posizione. Si confronti, per esempio, l’impostazione complessiva che emerge da queste pagine con quella rivendicata da Biagio de Giovanni sul «Corriere della sera» dell’8 febbraio scorso, in un articolo significativamente intitolato Questo scontro è carico di filosofia. All’affermazione, lì, di uno scontro «senza mediazione possibile» tra «potere orientale e potere occidentale» fa da controcanto, qui, l’assai più sfumata analisi del topos oriente/occidente (come equivalenti di dispotismo e libertà) nel saggio di Francesca Rigotti. E alla ripresa, mutatis mutandis, dell’ironia hegeliana nei confronti dell’ideale della «pace perpetua» di Kant, si contrappone la tesi di Pasquino per cui le democrazie occidentali «sono approdate alla consapevolezza che la pax kantiana, quella fra Repubbliche che sanno federarsi, è possibile e duratura, perpetua» (p. 25). Non si tratta di dispute storico-filosofiche, ma della differenza tra diagnosi e strategie profondamente diverse: da un lato, la presa d’atto che la «pacifica celebrazione della interdipendenza è finita e si apre la lotta per nuovo ordine del mondo» (de Giovanni), dall’altro l’insistenza sul carattere ‘contagioso’ di un’idea, quale l’Occidente è, che non si espande per progressivo inglobamento dell’esterno, ma si propaga «con la forza della persuasione» (Tuccari, p. 82) e prende la forma di una «connettività totale», di «una sfera antropica al cui interno non circolano unicamente merci e flussi finanziari, ma informazioni, idee, cultura, paradigmi mentali, stili di comportamento, emozioni» (Schiavone, p. 35). Un’idea che continua a rinascere, perché sa fare i conti con la caduta che porta nel nome.
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