Chissà perché quelle sconvolgenti immagini dell’assalto al Congresso americano che l’impietosa tecnologia della comunicazione ci butta in faccia così come arrivavano dai telefonini dei presenti (togliendo una gerarchia agli episodi ritratti, ma aggiungendo ansia alla narrazione) non mi hanno fatto pensare a una delle innumerevoli fiction hollywoodiane che raccontano l’assalto a Capitol Hill o alla Casa Bianca. Il pensiero, invece, è andato ad Antonio Tejero Molina, un modesto tenente colonnello della Guardia Civil spagnola con la monomania dei colpi di stato che, il 23 febbraio del 1981, esattamente 40 anni fa, prese d’assalto con un manipolo di duecento fedeli e la pistola in pugno, il Congreso de los Diputados, sequestrando i parlamentari che stavano procedendo all’investitura del nuovo capo del Governo Leopoldo Calvo-Sotelo.
Il colpo di stato, grazie alla fermezza del giovane re Juan Carlos, durò lo spazio di una notte: il golpista si arrese alle 10 del mattino e la nuova democrazia spagnola superò la drammatica prova del fuoco. Tejero, con il ridicolo triconio, troppo piccolo per la sua grande testa, che contrastava tragicamente con la sua pistola levata verso l’alto, mentre dalla tribuna del Presidente del Congreso impartiva ordini ai los diputados, somiglia al Donald Trump che arringava ore fa, poco prima che il Congresso americano ratificasse l’elezione di Biden, dalla tribuna issata per strada, inguantato e scarmigliato nei capelli gialli dal vento di gennaio, con parole dure, parole di eversione, aizzando i suoi contro i presunti brogli elettorali che l’avrebbero escluso dalla vittoria. Al grido di «non ci arrenderemo mai, non concederemo mai».
Ma l’iconica somiglianza tra due eversori, usciti furtivamente da uno di quei quadri grotteschi di George Grotz che rappresentano l’umanità impazzita in preda al male, finisce qui. La tragica impresa di Tejero si risolse con il suo arresto alle 12 del giorno dopo l’inizio dell’occupazione. Trump, fino al 20 di gennaio, è ancora presidente in carica.
Certo, potrebbe essere adottato nei suoi confronti il rimedio di cui tanto si è parlato in queste ore: la quarta sezione del 25° emendamento, secondo cui, se un presidente non è in condizioni fisiche o mentali per governare può e deve essere rimosso. In questo caso la proposta di rimozione spetterebbe al suo vice Pence – già pubblicamente vilipeso da Trump per non aver disconosciuto l’elezione di Biden – e firmata da almeno le metà più uno dei ministri del governo, per diventare subito operativa, dopo la consegna al Congresso.
Concretamente, questa procedura porterebbe all’immediata rimozione di Trump e alla reggenza di Pence da quel momento fino all’insediamento del nuovo presidente. Il tutto, insomma, durerebbe poco meno di due settimane. Vedremo nelle prossime ore che cosa potrà accadere, ma intanto questo episodio drammatico – comunque sono morte quattro persone – ed emblematico racconta certamente della fragilità delle nostre democrazie liberali, tema su cui piovono editoriali ed elzeviri in queste ore, aggiungendovi, però un di più che va considerato.
Una domanda: siamo proprio sicuri che le ermeneutiche tradizionali, consegnateci dai classici della politologia, siano ancora quelle giuste per capire quel che accade nel mondo? Insomma, dobbiamo ancora far ricorso alla politica per capire i gesti compiuti da un personaggio come Trump, oppure potrebbe apparire più appropriato il ricorso alle discipline che si occupano della psiche umana per comprendere, prevedere e, se i check and balance funzionano, correggere e arginare i comportamenti di un leader che, con il suo immenso potere malamente esercitato ma legittimamente detenuto, può incidere nei destini di un intero paese e forse anche del mondo? In passato, la psicologia in politica è stata adoperata per analizzare i comportamenti dei dittatori. Ma oggi gli uomini soli al comando trovano luogo anche nelle democrazie, in carenza di contrappesi solidi (democrazia interna ai partiti, parlamenti funzionanti, sistemi elettorali adeguati), per cui il gesto del leader sempre più spesso trova, insieme al calcolo politico, anche importanti pulsioni psicologiche.
Inoltre: come collocare politicamente Trump? Si fa fatica a ficcarlo nell’alveo della tradizione repubblicana statunitense, da cui, tra l’altro, dichiara di voler prendere distanze: piuttosto, se ci intendiamo sul significato del lemma, sarebbe un perfetto interprete nel ruolo del capo populista. E quest’aspetto è la parte più preoccupante, perché chiama in causa anche le democrazie europee. Perché Trump è portatore di una visione populistica – la banalizzazione della politica attraverso la riduzione a schema binario, amico/nemico, buono/cattivo, dei problemi complessi, resa con linguaggio semplificato – che è figlia del web.
Il presidente uscente è stato sicuramente più implicato nell’utilizzo politico della Rete di quanto non sia accaduto a nessuno dei suoi predecessori ed ha trascinato con sé quella parte di popolo che ha avuto un’emblematica rappresentanza in molti dei personaggi che hanno compiuto lo sfregio dell’assalto a Capitol Hill: gente vestita come eroi dei comics, negazionisti professionali, complottisti vocazionali, senza escludere gruppi neonazisti ed eversori di professione, persone che hanno raggiunto l’alto obiettivo di farsi un selfie iconoclasta, mettendo i piedi sulla scrivania della speaker Nancy Pelosi (con un retrogusto di sfregio misogino).
Certo, non saranno mancati anche rappresentanti della piccola borghesia americana esclusa e impoverita e, comunque, in perenne antagonismo con le elites: ma questo è proprio elemento costitutivo dell’ideologia populista. Possiamo escludere, dunque, che questa miscela esplosiva possa trovare terreno di coltura anche in Europa, dove peraltro il populismo nutrito dal web è apparso nelle istituzioni elettive prima dell’avvento di Trump? È forse questa un’ineluttabilità della Rete, poggiata sull’idea, mutuata dalla sua indole commerciale, di corrispondere al desiderio dell’utente, compiacendolo con i contenuti che vuole: eliminata la mediazione di chi deve certificare l’autenticità dell’informazione, resta il pret-a-porter.
Ecco perché, alla fine, Trump e Tejero, pur così simili nei gesti e nei contesti, alla fine sono molto lontani: quella che poteva essere una minaccia per la giovane democrazia spagnola, si stinse in una farsa dopo una manciata di ore. Trump, invece, perdente e con le valige in uscita dalla Casa Bianca, tornerà a twittare minacciando di mettersi a capo della sua armata tragicamente pullulante di supereroi dei comics yankee.
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