Di solito i programmi elettorali diventano carta straccia il giorno dopo le elezioni; questa volta i redattori si sono talmente concentrati sul come blandire l’elettorato che hanno perso di vista la realtà che stava mutando da ben prima del 20 luglio scorso in modo troppo impegnativo. Già da qualche giorno si sono resi conto che sono carta straccia ben prima delle elezioni, non il giorno dopo, cercando di scaricarne l’onere sul governo cui avevano appena votato contro.
Dopo le elezioni anche il governo con la più forte maggioranza possibile avrà l’agenda (se si può ancora usare questo termine) economica già scritta per due anni almeno. Ciò può tranquillizzare qualcuno, ma allo stesso tempo preoccupare altri perché potrebbe stimolare la ricerca di identità più profonde e marcatamente divisive su temi diversi dalla politica economica.
Limitiamoci alla politica economica. Gli obiettivi dell’azione economica del futuro governo sono obbligati e i vincoli non aggirabili. Gli obiettivi, nel breve periodo, sono affrontare gli effetti della enorme modificazione dei prezzi relativi dell’energia sull’attività produttiva e sulla distribuzione del reddito senza che diventi inflazione che si autoalimenta. Il tutto congiuntamente alla gestione del molto probabile razionamento delle disponibilità di energia.
Poiché gran parte dell’energia la importiamo, l’aumento del suo prezzo è equivalente a una tassa che ci viene imposta dall’estero. Una parte di essa (60 miliardi) nel corso di questi mesi se la è accollata il settore pubblico con provvedimenti temporanei che nei prossimi mesi dovranno essere rinnovati. Ma può davvero accollarsela? In realtà, ha cercato di ripartirne l’onere tra i cittadini in modo da temperare gli effetti redistributivi, perché, ovviamente, il finanziamento del disavanzo pubblico non può che ricadere comunque sui cittadini: o attraverso maggiori imposte e minori trasferimenti obbligatori, oppure chiedendo loro un atto volontario di finanziamento a fronte del pagamento di interessi. Quest’ultima si presenta come una scelta di investimento della propria ricchezza da parte dei cittadini, scelta che richiede una valutazione del rischio che circonda il valore del capitale investito. Generalmente, i cittadini sono più riluttanti quando si tratta di prestare capitale a una startup e il maggiore rischio viene compensato da un maggiore tasso di interesse richiesto per rendere appetibile l’investimento. Ovviamente, un ‘nuovo’ governo non può assimilarsi a una startup, ma alle volte una certa naïveté potrebbe sconcertare.
Per evitare che lo shock sui prezzi dell’energia si trasformi in inflazione che si autoalimenta, i paesi europei hanno anche l’aiuto della Banca Centrale Europea, ma è un aiuto, necessario per raggiungere quell’obiettivo, che si trasforma in un vincolo per i paesi il cui settore pubblico è più indebitato. L’obiettivo della BCE di evitare che l’andamento attuale dell’inflazione si trasformi in aspettative di inflazione futura altrettanto elevata, può solo essere perseguito, assieme alle politiche fiscali dei singoli paesi membri, riducendo la liquidità in circolazione attraverso l’aumento dei tassi di interesse e l’azzeramento degli acquisti di titoli pubblici già in circolazione. Di conseguenza, mentre diventa più forte l’esigenza di intervento del settore pubblico, aumenta in misura maggiore la necessità di prestiti da parte del futuro governo italiano. Mi spiego: il fabbisogno lordo di finanziamento del settore pubblico è costituito dal disavanzo dell’anno corrente cui va aggiunta l’entità dei prestiti passati che vengono a scadenza. Questi ultimi dal 2010 in poi si sono aggirati attorno ai 400 miliardi di euro all’anno. In condizioni normali l’operazione che avviene è che lo Stato rimborsa ai cittadini 400 miliardi e questi nel loro complesso riacquistano nuovi titoli per lo stesso ammontare. Per facilitare queste operazioni la BCE dal 2015 ha acquistato sul mercato titoli pubblici italiani per un centinaio di miliardi all’anno e dal 2020 questa entità è quasi raddoppiata, ma dal 2023 scenderà a zero. Dal prossimo anno, quindi, il rinnovo dei titoli in scadenza nei portafogli dei privati sarà dell’ordine di grandezza di circa 450 miliardi cui è probabile che si sommi un deficit corrente di circa 100 miliardi. Di qui la necessità di evitare da parte di chi si sente già investito della responsabilità di governo mosse troppo naïf, che possano disincentivare il riacquisto di titoli in scadenza.
Da ultimo, perché vincoli per almeno due anni, come dicevo prima? Perché, pur non sapendo quanto durerà la guerra, il problema delle disponibilità del gas non si esaurirà con il finire del prossimo inverno, comunque superato. Infatti, dati i minori flussi in ingresso durante l’inverno, più utilizzeremo le scorte, peggiore sarà la situazione nell’inverno del 2023-2024. Nel corso della primavera-estate 2022 abbiamo avuto ancora a disposizione, anche se in misura decrescente, il gas russo, riuscendo ad accumulare 15/16 miliardi di scorte di gas. Nel 2023 la disponibilità di gas russo sarà ancora minore se non nulla e quindi più complesso riuscire ad accumulare quanto necessario per affrontare l’inverno successivo, quando continueremo a non importare gas dalla Russia e non avremo ancora a disposizione importazioni dagli altri paesi con cui abbiamo già preso accordi.
Nella interpretazione un po’ semplicistica della interazione tra politiche di bilancio e cicli elettorali si è fatto spesso riferimento all’uso del ‘bastone’ nei primi anni di governo per passare la mano alla ‘carota’ quando si avvicinano le successive elezioni. Riuscirà il futuro governo a sopravvivere ad almeno due anni di ‘bastone’ anche al di là delle proprie intenzioni?
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