Nella puntata precedente abbiamo ricordato una serie di fatti che negli ultimi quattro anni hanno condotto all’approvazione del bilancio dello Stato in contrasto con le norme che ne disciplinano l’iter. Norme costituzionali, dei Regolamenti parlamentari e di leggi ordinarie: e quindi non rispetto della scadenza prevista per la presentazione del bilancio; ignoranza dei vincoli dei contenuti; elusione della procedura costituzionale sul procedimento legislativo; superamento dei termini di esame previsti nei Regolamenti; accorpamento di materie eterogenee in un unico gigantesco testo; sistematico ricorso alla fiducia per evitare il voto sugli emendamenti presentati; instaurazione nei fatti di un monocameralismo alternato.
Per nobilitare quanto è accaduto, che ha forti ripercussioni sul circuito costituzionalmente protetto Governo-Parlamento, si potrebbe dire, dopo quattro anni, che ci si sta avviando verso una consuetudine costituzionale con conseguenze non banali sulle stesse caratteristiche della nostra democrazia parlamentare.
In due occasioni la Corte Costituzionale è stata chiamata a pronunciarsi sul tema. A giudizio di gran parte della dottrina in modo però non condivisibile.
In entrambi i casi, nel 2019 e nel 2020, la Corte decide con ordinanza in Camera di Consiglio, quasi volesse evitare la pubblicità di una pubblica udienza. Riconosce, forte novità, il diritto di un singolo parlamentare a ricorrere presso di essa per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato in caso di evidenti violazioni delle sue prerogative costituzionali. Ma non riconosce, nel processo di approvazione dei bilanci che abbiamo descritto, la sussistenza di tali violazioni.
Non vogliamo entrare nel merito dell’iter logico-giuridico che ha indotto la Corte a non accogliere i ricorsi. La Corte deve però ammettere che «le forzature procedimentali censurate derivano essenzialmente […] dalla prassi dei maxi emendamenti approvati attraverso il voto di fiducia». E definisce questo strumento «un voto bloccato» che preclude «una discussione specifica e una congrua deliberazione sui singoli aspetti della disciplina» e impedisce «ogni possibile intervento sul testo presentato dal Governo». Come da queste nette affermazioni si giunga poi alla decisione di respingere comunque i ricorsi, appoggiandosi in buona parte alla «prassi fin qui consolidata che non può essere ignorata», è cosa che lasciamo ai pazienti lettori delle due ordinanze: la 17 del 2019 e la 60 del 2020.
Quello che colpisce è la chiusura della prima ordinanza: «Nondimeno, in altre situazioni, una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare ad esiti differenti». Un monito, quest’ultimo, che nei tre successivi bilanci non sembra abbia però avuto effetti significativi.
Poiché la Corte è costituita da giuristi esperti ed autorevoli, vanno tuttavia ricercate le ragioni di una decisione che, come abbiamo detto, è stata criticata dalla maggior parte della dottrina. E in una visione costruttiva si può allora leggere la decisione della Corte come un compromesso tra l’esigenza di censurare gli aspetti più evidenti del deterioramento del processo legislativo e quella di far fronte alla comprensibile ragione di ‘salvare’ il bilancio dello Stato in un periodo di forte criticità finanziaria. Il che rende più pesante la responsabilità di chi ha costretto, prima il Parlamento e poi la stessa Corte, a subire un percorso politico e procedurale incerto e pericoloso.
Quid agendum? Non si può certamente presumere di indicare in poche righe la risposta ad uno dei più rilevanti aspetti della crisi odierna della democrazia parlamentare e rappresentativa, quello del rapporto tra Parlamento-Governo nella definizione della politica finanziaria ed economica. È questo uno dei temi centrali su cui si sta interrogando la scienza politica, a fronte di sistemi (in primo luogo quello cinese) che fanno dell’output, del risultato, il criterio di validità di un sistema indipendentemente dai mezzi usati per raggiungere il risultato stesso.
Numerosi, e tutti finiti nel nulla, sono stati nel nostro paese i tentativi di procedere ad una riforma costituzionale che toccasse anche i temi del rapporto Governo-Parlamento nella definizione delle procedure di bilancio. Da ultimo, è stata avanzata la proposta di istituire una Assemblea Costituente di 75 persone, eletta con metodo proporzionale, per redigere un testo di modifiche costituzionali da sottoporre poi a referendum confermativo. Una proposta che ha il merito di staccare i temi della riforma dal contingente dibattito politico-parlamentare. Ma che rimane, per ora, tra le tante incompiute proposte che hanno, ahimé, scandito il deterioramento delle nostre istituzioni.
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