L’appetito di bellezza dell’uomo del XXI secolo è divenuto, da alcuni anni, uno dei temi prevalenti del dibattito filosofico. Con pregevole tenacia argomentativa, i grandi interpreti del pensiero contemporaneo offrono stimolanti riflessioni sul rapporto tra l’individuo e il bello; ancor di più, sul rapporto tra bellezza e società. Così James Hillman (Politica della Bellezza), in merito alla fondamentale connessione tra benessere collettivo e qualità estetica dei contesti di vita; così Zygmunt Bauman con Agner Heller (La bellezza (non) ci salverà), secondo i quali la bellezza è l’unico possibile antidoto contro la disperazione ma anche una dimensione inattesa, spaesante e in costante dialogo con il suo opposto.
L’anelito alla bellezza, ci insegnano Hillman e prima di lui schiere di filosofi a partire da Platone e Agostino, è un tratto caratteristico della natura umana. Oggi, questa spinta interiore si manifesta in modo disordinato, caotico: l’incertezza di una sua forma e soprattutto della sua autenticità, complici le chimere di un società sempre più omologata dalle regole del mercato e dell’apparenza, determina smarrimento, persino paura. Il patrimonio artistico e culturale, insieme al paesaggio, attrae in modo irresistibile legioni di visitatori anelanti una rivelazione, un appagamento estetico e spirituale per il quale – molto spesso – non si possiedono adeguate chiavi di lettura, di comprensione, di accesso profondo.
Di fronte alla crisi della religiosità e della fede, l’uomo contemporaneo cerca la dimensione del sacro in un’esperienza estetica che riesce a sfiorare solo in superficie. Il nuovo ruolo del museo, sempre più aperto e socializzante, partecipativo e in costante comunicazione con i pubblici ed il territorio, soddisfa solo in parte questo bisogno: lo sforzo di flessibilità lo rende più familiare, ma ne indebolisce l’autorevolezza e la sacralità che potrebbero lenire la sofferenza dell’uomo e della donna in cerca di raccoglimento.
La riflessione sulla bellezza nel XXI secolo impone un tentativo di comprensione profonda della ricerca di felicità e di benessere. La sperimentazione dell’arte contemporanea (attraverso i linguaggi più vari e le più diverse forme espressive) ha ampliato in modo dirompente il principio stesso del bello – giungendo a negarlo e a ribaltarlo, trasformandone il significato e la qualità esperienziale – lungo il solco di esiti che, però, l’umanità ha sempre perseguito. Il non finito michelangiolesco, nei suoi tratti di sublime incompiutezza, incarna in modo esemplare la ricerca di una perfezione e di un incontro con l’in-visibile che è la piena sostanza del bisogno di bellezza (Agostino); ma ne è perfetta incarnazione, con altrettanta drammatica incompiutezza, la poetica di un grandissimo interprete del ‘900 come Mark Rothko, nelle cui vibranti tele il colore/materia ci avvolge e ci invita in una immersione irresistibile e struggente, che è esperienza estetica e spirituale, raccoglimento del sé e sublimazione del corpo nella pura essenza dell’anima e del pensiero.
Il bisogno di bellezza è un’emergenza oggettiva del nostro tempo, una necessità della persona e della società, che devono riconquistarne le chiavi di accesso per tornare a crescere e migliorarsi, per recuperare senso di identità e di appartenenza, valori, sostanza. È necessario, per questo, agire sull’educazione alla consapevolezza, all’autonomia di pensiero: curare l’estetica dei luoghi e delle persone, come pure dei comportamenti, dei discorsi e delle relazioni. La bellezza è forse la categoria che meglio incarna il paradigma della complessità elaborato da Morin: essa è la strada per educare il cittadino, la donna e l’uomo del presente, verso un nuovo umanesimo che possa riflettersi senza timori e senza smarrimenti nello specchio della storia, nella ricchezza multiforme del patrimonio e dei linguaggi. Daniel Arasse, uno dei grandi storici dell’arte del ‘900, scrisse un piccolo libro intitolato Non si vede nulla (On n’y voit rien. Descriptions), dimostrando quanto articolato e controverso sia il gioco dell’esperienza culturale ed estetica di un’opera d’arte (a proposito dell’Annunciazione di Francesco del Cossa, sulla quale spicca in primissimo piano un’ammaliante quanto enigmatica lumaca: «…in ciò che vedete non vedete ciò che guardate, ciò per cui, nell’attesa di cui, voi state guardando: l’avvento dell’invisibile nel visibile»).
La bellezza complessa di cui sentiamo il bisogno nel nostro tempo, per trovare un posto sicuro e risposte di verità, richiede codici e competenze, nonché capacità di visione che andrebbero garantiti attraverso un impegno politico di democrazia e di giustizia. Ne parlava già Schiller, nell’età del disincanto che seguì la Rivoluzione Francese e il trionfo del razionalismo illuminista: « È unicamente attraverso la bellezza che si perviene alla libertà» (Lettere sull’educazione estetica dell’uomo).
Giorgio La Rocca dice
In alcuni casi, sembra che l’evoluzione umana e civile dei tempi attuali voglia operare un’inutile palingenesi, ricostruendo da capo una storia umana che segua l’unico principio della rivisitazione di ogni cosa, da attuare semplicemente come alterità dal precedente e distruzione di ciò che è stato, unicamente perché è già stato. Al contrario, il nuovo giustificherebbe la sua legittimità per il solo fatto di non esserci stato prima. Eppure, il reale cambiamento nasce dalla originale posizione di scenari nuovi che, inaspettatamente, fanno percepire come superati i precedenti. Ciononostante, il cambiamento – eventualmente anche rivoluzionario – da promuovere e assecondare non agisce mai a modificare quelle costanti umane e civili, senza le quali si tornerebbe a uno stato primitivo più che primordiale.
Tali punti fermi dai quali non poter prescindere sono richiamati e ripristinati in alcuni punti dell’opera scientifica di Irene Baldriga e in questo suo bell’articolo sul “bisogno della bellezza e l’incapacità di vedere”, che richiamano inevitabilmente bisogni da esprimere anche politicamente ed educativamente.
Nella sintesi del testo, è richiamata tutto l’essenziale anelito di ordine e armonia ricercato ed espresso dal pensiero filosofico, condivido e realizzato esteticamente dalle arti fino a farlo diventare cammino politico di ogni comunità umana che nella bellezza può trovare la propria forma di vita. Non si tratterebbe di realizzare un progetto politico estetizzante che, come ha affermato Karl Popper, rischierebbe di trasformare la terra in un inferno, ma di promuovere e favorire un continuo contatto con tutto ciò che richiama l’umano alla bellezza, formandosi e conformandosi a un’ideale umano arricchito rispetto a quello che ci ha consegnato la natura ferina. Accrescere la capacità di vedere perché si veda fuori, nelle cose e negli altri, quel desiderio di ordine cui si aspira per sé.
Si tratta di temi classici che però assumono una forte dimensione innovativa e perfino di controcondotta proprio perché sono espressi nel contesto di uno scenario culturale che fatica a trovare un suo riferimento. Ecco perché l’arte e l’educazione alla bellezza, esattamente nei termini descritti da Baldriga, assumono oggi una forte connotazione formatrice. Se la storia offre degli alibi perché alcuni tentino l’eliminazione del pensiero filosofico, religioso, politico in cambio di un’omologazione individuale che possa garantire l’omologazione produttiva del sistema economico, l’arte e la bellezza resistono nella loro innocenza a mostrarci come sia ancora possibile il sogno di un’umanità sempre diversa, sempre migliore, sempre più libera.
Giovanni Cogliandro dice
Il contributo di Irene Baldriga stimola la riflessione filosofica, ricca di domande sempre nuove e sempre antiche. Condivido la necessità di educare al bello ed educare in modi sempre nuovi all’estetica, coltivando la percezione visiva e uditiva per evitare la perdita di una ricchezza che apre alla comprensione anche delle più profonde problematiche filosofiche. Rispetto a quanto da lei scritto penso si possa aggiungere che nei trattati e nelle questiones degli autori più noti della filosofia e teologia scolastica, momento di grande fioritura della teologia universitaria, i trascendentali sono res, unum, aliquid, verum, bonum. Il pulchrum veniva allora considerato come una particolare determinazione del bonum, un suo sottogenere. Questa considerazione derivava in particolare dalla traduzione latina della Bibbia, in cui Cristo è definito “Pastor bonus”: l’aggettivo greco che viene tradotto come ‘bonus’ nella Vulgata è però kalòs, bello. Cristo era quindi sia buono che bello, con feconda ambiguità colta già da Agostino, Bernardo, Bonaventura, pensatori di densità teologia e filosofica straordinaria sempre da riscoprire.
Sul tema della “retrocessione” del pulchrum e della necessità di un suo ripensamento contemporaneo si possono leggere i sempre illuminanti scritti di H. U. Von Balthasar, in particolare il primo volume di Gloria, in cui a partire dalla riflessione sul lemma “Kabod” nella Bibbia si dipana una estetica teologica in cui dal glorioso e tremendo manifestarsi della divinità si giunge al Patto, all’Alleanza tra Creatore e creature in cui la gloria si mostra non più come tremendus, come il numinoso indistinto e terribile di Rudolf Otto, ma si mostra nella sua verità come bellezza salvifica. Riflessioni che meriterebbero commenti più ampi di quanto qui possibile. In Italia negli ultimi anni vi è stata una certa qual rinascita della riflessione sul trascendentale “bello”, sulla bellezza come grazie che si dona gratuitamente e apre all’intelligenza di realtà ulteriori e non pienamente descrivibili a seguito delle numerose traduzioni italiane delle opere di di S. N. Bulgakov e di P. Florenskij. In particolare la tesi di Bulgakov è che la bellezza sia il primo percepibile e conoscibile risultato dell’operare efficace dello Spirito Santo sulle realtà create. I teologi russi della cosiddetta età d’argento si concentrano su quel singolare mediatore costituito dalla Sofia, e ritengono che non si possa parlare propriamente di Sofia a proposito del Padre, perché in lui la Sofia divina dimora sin dai primordi come Ousía, l’essenza, la profondità nascosta e inesauribile della Sua natura. Sono invece il Figlio e lo Spirito che rivelano ipostaticamente la divina Ousía ipostatizzandola in quanto Sofia, e cioè Ousía rivelata: il Figlio, Logos, ipostatizza la Sofia come l’unità organica e molteplice del pensiero divino, il suo pleroma, l’uni-totalità della rivelazione della natura di Dio; mentre lo Spirito rivela l’ousía in quanto gloria, vivificando la rivelazione del Figlio e rivestendola di bellezza. Da questa bellezza primigenia promanano tutte le diverse possibili forme di bellezza creata.
Marco Ramazzotti dice
Sul bisogno di bellezza e l’incapacità di vedere.
Ripensando al contributo della collega Irene Baldriga riprendo brevemente alcune trame del suo discorso, come fossero fili da tessere insieme per esaltare l’assenza, la pausa, il vuoto sul dominio della figura.
D’altronde, la figura è storia passata e presente, e forse per attendere al nostro incessante bisogno di bellezza dovremmo immergerci in una totalità senza spazio e senza tempo, come ad esempio quella del rosso nelle tele di Rothko.
I colori possono riempire di contenuto il mondo assumendo diverse forme, oppure nessuna. L’atto di trasformarli in figura è simbolico, universale, astratto, e da questo la coincidenza tra significato e bellezza, necessaria perché non si ricada nell’errore di guardare al bello come ideale.
Infatti, per la storia dell’arte antica l’incapacità di vedere non è solo un fattore della distorsione ottica ma piuttosto l’altra occasione per riconoscere l’universale aldilà della figura, e della sua retorica. È in altri termini incapacità di presupporre una relazione lineare tra forma e contenuto.
E allora ben venga questa incapacità, se vi è sotteso un desiderio di ricomporre o riconoscere quanto di universale c’è dietro la figura, quante relazioni, quanti contatti, quanti incontri e quanti scambi. Della teoria dei quanti sarebbe bene discutere, in rapporto alla bellezza.
Certe volte, ma su questo riconosco il peso dei giorni sulla mia percezione, si sopravvive meglio senza avere la capacità di vedere. In altri, invece, è il destino delle immagini a guidare un nostra ricerca del bello, come ricerca della libertà se ho ben inteso, Irene, la citazione di Schiller che socchiude il tuo sguardo.
Federico dice
Mi soffermo volentieri sull’incapacità di vedere la bellezza. La cecità dell’imperante mal governo sta portando degrado e svilimento nelle nostre città, sempre più fuori dai circuiti turistici internazionali. Le statistiche parlano chiaro (Roma al 13’ posto), risultato del duello che vede vittima sacrificale la bellezza, della quale rimangono solo le briciole, soffocate da traffico, immondizia e disservizi.
Angela Mirto dice
Se bellezza è apertura di orizzonti, capovolgimento di punti di vista o specchio in cui riflettersi grazie a letteratura, musica, arti figurative, gli spunti che nascono dallo scritto di Irene Baldriga sono ricchissimi.
E’ una lettura che apre percorsi di riflessione utili in un momento storico in cui le contraddizioni, dentro cui si configurano i nostri orizzonti, sono ad un apice, credo, mai visto.
Il legame fra il nostro sentirci “bene” e le caratteristiche degli spazi in cui siamo immersi dovrebbe, ad esempio, spingerci – come cittadini – a non essere pigri nel farci tutti carico dei beni comuni.
La contraddizione fra la nostra abulia di fronte allo scempio che si fa di essi e la presenza di vere folle ad eventi come mostre e festival letterari mette quindi a nudo quanto sia importante la formazione culturale perché ciò che è confuso bisogno amplificato dalle mode diventi consapevolezza.
In una società in cui il senso del sacro è perduto pone interrogativi fecondi la notazione che anche il museo ha perso la sua sacralità.
E in un’epoca in cui i drammi dell’umanità, sempre esistiti, entrano nella nostra quotidianità in modo pervasivo – grazie alla caduta di antichi limiti spaziali e temporali – e sembrano non darci vie di fuga, è importante ricordare come la bellezza acquisti consistenza ed identità nel suo dialogo con ciò che bello non è. Da qui si possono aprire orizzonti di speranza.
Annamaria dice
Il pregio di Irene Baldriga è principalmente quello di sfiorare, mettendole in moto, le connessioni che stanno alla base della nostra perenne ricerca di bellezza, una ricerca senza fine, per fortuna, senza un totale appagamento, perché, altrimenti, finirebbe la nostra storia. Questa è l’unica militanza possibile per l’arte, per chi la ama, mantenere alto il tono del monito, dell’indignazione.
Caterina De Fisco dice
Più che di bellezza che nei tempi di massificazione di oggi trova rari risvolti io credo sia più corretto parlare di “ritorno al sacro” Fare semplicistici riferimenti culturali lo trovo fine a sé stesso. Lo sfoggio di “erudizione” serve a schivare le vere problematiche. Chi lavora sulle barricate ha visto un lento e progressivo boicottaggio del pensiero a favore di bieche manovre volte a “stringere” ogni cosa alla logica del capitale, della supremazia del più forte, del più furbo. E davvero lasciamo perdere ciò che in un trentennio si è fatto sull’arte, favorendo anche in questo caso il “capitale” di banche, fondazioni, collezionisti privati, causa continuo e gigantesco “vuoto” dello Stato. Di quale bellezza si vuol parlare, considerata la distruzione di famiglie e di sistemi educativi. E la capacità di osservare? Capire, entrare in una profonda e consapevole analisi visiva di una immagine? nella civiltà dell’immagine.??Come si fa? a chi si parla di bellezza? Se non si sa più leggere??? Né forme scritte tanto meno visive?
Paola dice
Come sempre nei suoi interventi, Irene Baldriga apre suggestivi percorsi di riflessione sui temi della cultura e della società del nostro tempo, in una pervicace battaglia contro la linea dilagante della semplificazione e della banalizzazione dell’esistenza. Il tema dell’educazione alla bellezza intesa come mezzo per vivere la complessità del mondo e della nostra anima fino persino a colmare il bisogno originario e ineliminabile del sacro fa comprendere quanto sia sempre più urgente investire nella cultura e nella formazione dei giovani nelle scuole.
marco dallari dice
Come già aveva già fatto in altri contesti e occasioni, Irene Baldriga ha presentato con esemplare capacità di sintesi alcuni nodi essenziali di un problema cruciale: quel “bisogno di bellezza” che sta nella dimensione originaria degli essere umani, ma al quale occorre, per essere appagato, di competenza simbolica e sensibilità estetica, doti che riguardano non la dimensione della natura ma abitano i territori della cultura. E quando, nell’occidente, vediamo la ricerca della bellezza nell’esclusiva dimensione del corpo e del suo abbigliamento, o scambiata con il suo simulacro più falso volgare, il lusso, possiamo renderci conto di come la disattenzione agli esempi di bellezza che l’ambiente naturale e i repertori culturali contengono e saprebbero offrirci dipenda dal fatto che le competenze simboliche (linguistiche, iconiche, musicali…) e l’educazione estetica, cioè l’incremento della sensibilità e delle competenze emozionali, sia puntualmente sottovalutato e disatteso non soltanto nell’universo kitsch del’universo mediatico ma anche nei luoghi che alle funzioni educative sarebbero deputati.
Mario Vai dice
Articolo intenso e intriso di verità, di stimoli reali e di azioni da perseguire di cui tutti noi insieme dobbiamo assolutamente prendere coscienza e di cui non possiamo più fare a meno: pena una decadenza civica e morale della nostra stessa società. Grazie Irene!
Ottavio dice
Irene, una eroina civile del nostro paese, un esempio nel saper contemperare impegno, profondità e leggerezza. Grazie!
Miria dice
La grande professionalità di Irene Baldriga che “commuove” e stimola il pensiero!
Enzo dice
Eccezionale Irene Baldriga è ormai una grande testimonial del nostro Paese che non si rassegna a soccombere di fronte all’ignoranza esibita ad ogni piè sospinto!! Noi vogliamo essere ITALIANI non ITALIOTI! Brava Irene avanti tutta!