La ‘discesa in campo’ di Di Maio ha riacceso i fari sull’isola che non c’è: quel centro di gravità permanente che la Dc e Battiato – con diverse intenzioni – hanno iscritto nella cultura politica e popolare italiana. L’evento ha scatenato l’esegesi sui globuli scudocrociati che sgorgherebbero gagliardi dalle arterie di giovani aedi del ‘centro moderato’ e di vecchi navigatori paleodemocristiani impegnati ad ammaestrare con ricette prêt-à-porter gli acerbi discepoli. A scorrere l’anagrafe del ‘centrismo’ italiano in questo momento si contano, al netto di Berlusconi che almeno i suoi voti ce li ha (meno di una volta ma ci sono veramente), non meno di otto organismi, tra l’unicellulare e il ‘qualcosa di più’. Con una caratteristica che li accomuna: sono fatti di ceto politico, talvolta abbastanza consumato per ragioni anagrafiche e comunque proiettato verso la perpetuazione del sé.
La prima domanda, allora è: c’è bisogno di ‘centro’ nella politica italiana? E poi, che cosa veramente intendiamo quando parliamo di centro? Nell’immaginario più nobile con ‘centro’ s’intende uno spazio politico non urlato, capace di elaborazione e di competenza, situato entro i canoni ideologici di quella che potremmo definire cultura liberal-democratica, contaminato da principi solidaristici e da impulso riformista. Insomma il classico ‘luogo’ che non c’è. Anzi: che sulla carta ci sarebbe pure troppo, disperso, appunto, nella nebulosa delle sigle che ripropongono con qualche ritardo la fattispecie del ‘partito personale’ descritto da Calise vent’anni fa, riproducendone l’eterna autoreferenza e i desideri del leader. Del resto, a restare nel canone ideologico, l’Italia si presenterebbe come una stridente anomalia rispetto alle democrazie occidentali che, siano esse ancorate alla regola maggioritaria oppure proporzionale, assumono il modus operandi e il grumo dei ‘valori centristi’ per governare le nazioni. Voglio dire: la prevalenza di un ‘sentiment’ centrista è la regola. Il dilagare di un istinto estremista no. Ma allora cos’è che manca a questo spazio politico vuoto per farsi pieno nel nostro paese? Intanto c’è l’handicap della incomparabilità con la DC, il partito centrista per antonomasia, che svalorizza e rende automaticamente insufficienti tutti gli altri. Di più: manca una rimonta reputazionale nell’immaginario pubblico, dopo più di vent’anni di dannazione del concetto di ‘centro’ nel racconto mediatizzato ad uso dell’elettore. Quando si è divisa l’Italia politica in due emisferi confliggenti secondo la regola del maggioritario, il centro è stato espunto e narrato come un errore, uno stratagemma escogitato per rimanere a galla, per non schierarsi. Per restare nel giro del potere: a destra e a sinistra. E questa ‘narrazione’ è ancora nell’aria. Ma c’è di più: il centro vive se è forma-partito e non se è ornamento e promanazione del leader. Abbiamo citato la Dc: la forma-partito vedeva una forte partecipazione di iscritti e militanti insediati nel territorio e un gruppo dirigente, selezionato dai congressi, che sceglieva il suo leader con la regola del primo tra i pari. Inoltre il partito centrista aveva un suo equilibrio tra rappresentanza parlamentare e articolazione periferica. Non era un ‘partito di soli parlamentari’ come sono per lo più le formazioni odierne.
Un ruolo essenziale nella selezione delle posizioni di vertice l’aveva in passato il voto di preferenza, strumento di collegamento tra popolo e rappresentanza ma anche di tutela della coesione del partito, perché la preferenza impone la solidarietà di lista. C’è posto, allora, oggi per un soggetto politico ‘centrista’? Sicuramente sì, ma, fuori dallo schema che sembra affermarsi in questi giorni e che viene percepito come promozione di un ceto politico che ha già dato quel che poteva in anni passati. Rendere credibile una proposta significa tenersi lontano dall’oleografia del mestierante la cui qualità prevalente è quella di saper rimanere a galla. Tra l’altro, nel piccolo cesarismo imperante oggi in politica, è difficile immaginare che in quella scarsa decina di sigle qualche capo sia disposto a cedere il passo ad altri. Infine il popolo: dov’è?
Viene in mente un vecchio film di Pupi Avati che raccontava di jazz e dell’educazione sentimentale dei ragazzi anni ‘50. Le feste in casa, qualcuno portava da bere, qualcun altro le tartine, altri i dischi. Poi partiva la domanda: «e le ragazze chi le porta?». Ecco: il consenso elettorale di questa terra di mezzo somiglia un po’ a quelle ragazze di Pupi Avati. Che non c’erano.
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