Nell’emergenza che ci troviamo a vivere ha fatto scalpore un breve testo di Giorgio Agamben apparso in data 11/03 sulla rubrica Quodlibet col titolo Contagio. Agamben esprime una posizione fortemente critica sulle misure restrittive adottate per limitare il diffondersi del COVID-19 e le interpreta come una forma di controllo da parte dello Stato volta a rimuovere dapprima eccezionalmente, ma forse prima o poi in modo permanente, le nostre libertà individuali.
In un chiarimento apparso qualche giorno dopo, Agamben precisa il suo pensiero sostenendo che: «la nostra società non crede più in nulla se non nella nuda vita. È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi» (https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-chiarimenti).
L’argomento di Agamben, così formulato, è però capzioso: è assurdo applicare la categoria di ‘nuda vita’, zoe, o mera esistenza biologica al tipo di vita che stiamo conducendo in casa in questi giorni. È vero, non possiamo uscire e trovarci con chi ci pare e piace, ma è evidente che il tipo di vita che conduciamo, per dirla con Agamben, ricade ancora ampiamente nella categoria del bios, della vita politica e dell’interazione con altri.
Qualcuno purtroppo ha perso il lavoro, ma è esagerato dire che abbiamo perso i rapporti sociali, le amicizie e gli affetti, men che meno le convinzioni politiche e religiose. Da casa e in casa comunichiamo con altre persone, ci prendiamo cura dei nostri figli, riscopriamo l’interazione quotidiana con il partner, cuciniamo, puliamo, leggiamo, facciamo lezioni online… certamente è un bios fortemente impoverito e per tanti drammatico, ma pur sempre un bios.
Nessuno di noi avrebbe accettato di essere messo in coma farmacologico a scopo preventivo o di vivere il resto dei suoi giorni recluso in una cella sterile solo per non ammalarsi. Quindi è falso dire, come fa Agamben, che siamo disposti a sacrificare tutto per la mera esistenza biologica. Non lo stiamo facendo e non è questo che ci sta ‘imponendo’ chi governa.
La questione che va posta, dunque, è un’altra. Quanto ‘impoverimento’, sia quantitativo sia qualitativo, può sopportare il nostro bios perché continuiamo ad avvertire la vita come degna di essere vissuta e ci rapportiamo al futuro con lo slancio e le aspettative che, tra l’altro, sono imprescindibili per evitare il collasso economico e sociale?
Si può fare un sacrificio temporaneo in vista di un bene futuro più grande. Perché questo accada occorre che questo bene futuro più grande venga pensato, descritto e articolato. A questo livello si colloca invece la grande mancanza della narrazione politica e culturale che ha accompagnato questi giorni.
Nessuno ha provato a raccontarci, anche solo per sommi capi, che futuro immagina per la Nazione, per l’Europa, per il mondo, così da rendere il nostro sacrificio attuale non tanto ‘necessario’ (categoria alquanto fuori posto in questo contesto), quanto auspicabile. A parte la promessa che, se ci atteniamo scrupolosamente al confinamento domestico, non ci ammaleremo (tesi per altro ancora tutta da verificare), condizione forse necessaria, ma non certo sufficiente a sostenerci a lungo nell’attuale sacrificio, il massimo che ci sentiamo promettere è un ‘ritorno alla normalità’.
Quale normalità, verrebbe da chiedere? Quella dei riders sfruttati e senza diritti o quella dei manager dai bonus milionari? Quella degli insegnanti precari che ora si trovano a far lezione online con i figli che schiamazzano di sottofondo e nessuna certezza per il futuro o quella degli statali iper-tutelati (inclusi noi docenti universitari di ruolo)? Quella dei debitori vessati o quella dei creditori e dei pignoramenti express?
Una cosa è certa: questa normalità non basta. Per milioni di persone il paventato ‘ritorno alla normalità’ non può che suonare come una minaccia, perché quella normalità, quando tornerà, oltre al livello di miseria che già possedeva prima, sarà ulteriormente aggravata dai disastri economici che il (o la gestione del) virus ha lasciato dietro di sé. Perché ‘teniamo duro’, come spesso si sente ripetere, occorre che qualcuno ci prospetti un futuro più desiderabile.
Allora, nel chiuso delle nostre case, continueremo a coltivare il nostro bios temporaneamente impoverito, forti della speranza che, quando usciremo, della ‘normalità’ precedente non sarà rimasto, vivaddio, più nulla.
ANDREA STAITI dice
Grazie mille del commento! Sulla prima parte risponderei così. Se è eufemistico parlare di esagerazione quando si dice che abbiamo “perso” i rapporti sociali, ecc., mi sembra però anche iperbolico dire che i rapporti che abbiamo in questo periodo NON sono rapporti o NON sono rapporti sociali. Il problema è che tanti intellettuali che scrivono di queste cose vivono da soli o comunque sono in una fase della vita in cui non hanno più i figli in casa. Non metto in dubbio, vivendola quotidianamente sulla mia pelle, la sfida e persino il pericolo costante di rottura che la convivenza 24/24h con il partner e i figli piccoli comporta. Ma questi sono rapporti sociali in carne e ossa a tutti gli effetti, bios, non zoe. Per gli altri rapporti, sono d’accordissimo che uno schermo non “offra le stesse soddisfazioni della relazione faccia a faccia”, ma proprio per questo la differenza è di grado, non di categoria. Lo scambio che stiamo avendo su questo forum è sicuramente una versione molto impoverita del rapporto che potremmo avere se andassimo a prendere un caffè insieme, ma è tuttavia ancora un esempio di rapporto sociale. Che cosa sarebbe se no? Una mera interazione causale tra oggetti? Per questo uso il linguaggio dell’impoverimento, ma trovo non adeguato il riferimento alla nuda vita. Questa è vita (sociale, politica, ecc.) impoverita, non nuda. Sulla seconda parte del commento sono d’accordo, per questo dico che per moltissimi la prospettiva di “tornare alla normalità” è un incubo, perché la normalità era già un incubo prima, figuriamoci adesso che le si aggiunge il collasso economico. Sono poi tendenzialmente d’accordo sul fatto che sulle misure di lockdown DURISSIME che sono state imposte in Italia non ci sia stato un dibattito adeguato. Ci siamo semplicemente allineati e chi non l’ha fatto è stato trattato come un nemico del popolo. Non si può non constatare che in altri Paesi, come la Germania, c’è in atto un lockdown ma non un confinamento domestico rigido come da noi, eppure non mi pare stia verificandosi un’ecatombe. Come mai? Ho l’impressione che da noi sia stata praticata una forma di “dumping” morale per cui tutta la responsabilità della buona gestione dell’epidemia è stata scaricata sui singoli cittadini che devono “stare a casa” e sono degli irresponsabili da sanzionare se non lo fanno. Così si è evitato di parlare dei presupposti sociali e politici veramente responsabili della strage al Nord (tagli alla sanità, gestione catastrofica in certi ospedali, ecc.) perché “non è il momento di fare polemica”. Su questo sono d’accordo che occorre riflettere e fornire un contraddittorio. Non sono d’accordo con il framework teorico in cui Agamben iscrive il problema e non sono d’accordo con l’idea che dietro ci sia un oscuro progetto di potere e controllo…magari! Almeno sarebbe un progetto invece che (come, ahimè, invece è) nessuno.
Raffaella Gherardi dice
Né sotto il profilo della mia professione, di storico del pensiero politico, né tanto meno dal punto di vista della mia esperienza personale di individuo, in tutte le sue appartenenze, riesco ad appassionarmi (e anzi mi indispongono fortemente) alle discussioni che contrappongono una idea astratta di libertà personale a veri o presunti vincoli liberticidi della stessa, visti di per sé, al di fuori del tempo e dello spazio e sempre uguali a se stessi anche in periodo di coronavirus… Sarà perché ho vissuto (un anno e mezzo fa) l’esperienza del coma, dopo un gravissimo arresto cardiaco, della terapia intensiva durata più di un mese in un ospedale pubblico della mia città, di cure ed esami su esami e accertamenti medici anche invasivi e alla fine eccomi qui a raccontare il tutto e ad auspicare che altri possano essere curati come lo sono stata io… bene, mai potrei nemmeno per un momento pensare di contrapporre la vita della persona alla sua libertà. Certo i miei cari avevano saputo dai medici, al momento del mio ricovero, che l’arresto cardiaco da me subito avrebbe potuto anche significare danni cerebrali, e allora? Personalmente sono ben conscia di dovere la vita e la mia integrità a tanti, individui e istituzioni, che sono stati al mio fianco al momento del mio dramma e ogni giorno mi interrogo su cosa io debba fare a mia volta per impegnarmi più di prima nel segno della solidarietà e responsabilità. Voglio sperare che al di là degli accademismi vari una nuova lezione possa essere fatta propria da tutti, individui, istituzioni ecc…
Marco Tarchi dice
D’accordo per molti aspetti, ma sostenere che “Qualcuno purtroppo ha perso il lavoro, ma è esagerato dire che abbiamo perso i rapporti sociali, le amicizie e gli affetti” mi pare quantomeno eufemistico, almeno per chi non crede che il contatto virtuale, attraverso il telefono o lo schermo di un computer, offra le stesse soddisfazioni della relazione faccia a faccia. I moltissimi “qualcuno” che usciranno (quando? Per molti c’è ancora di mezzo un “chissà”) dal confinamento in situazioni economiche precarie o disperate come faranno a superare la crisi indotta dalla serrata? Finalmente si comincia timidamente a dare la parola a psicologi e psichiatri che prospettano un panorama estremamente preoccupante. Quante relazioni saranno state logorate o distrutte dalla lontananza – o dalla vicinanza 24 ore su 24 – imposta per mesi? Ci verranno comunicati i dati dei suicidi, per capire quale sarà stata l’altra faccia del “tutti a casa!” somministrato con dosi quotidiane da cavallo di comunicazione ansiogena? O si continuerà a tappare la bocca ai dissidenti dalle scelte fatte (che ci sono anche in campo scientifico: il Corriere della sera telematico dava conto ieri di una ricerca internazionale che pone in dubbio l’utilità del “lockdown” rispetto al riassorbimento dell’epidemia. L’articolo è scomparso nell’arco di due ore, ma certamente per caso…)? Qui non è solo un problema di buone narrazioni sul futuro che si impone, ma una questione di qualità della vita. Della vita oggi la politica e certa scienza misurano solo la quantità. Su questo, Agamben non ha torto.