Le spese straordinarie per le guerre hanno sempre generato elevati debiti pubblici. Le galoppate successive dell’inflazione e l’avvio delle ricostruzioni hanno spesso consentito agli stessi paesi di ricondurre il peso del debito pubblico a una dimensione considerata normale.
Diverso è il caso dell’attuale nostro debito pubblico negli ultimi quattro decenni: motivazioni socio-politiche hanno portato alla sua accumulazione nel corso della prima metà degli anni ottanta. Non essendovi alcuna spesa straordinaria che potesse venir meno si è innescato un processo di auto alimentazione, che a distanza di quasi quarant’anni sta ancora condizionando la nostra politica economica e la politica tout court.
Pochi se ne accorsero, ma la correzione dei nostri conti pubblici cominciò verso la fine degli anni ottanta: il disavanzo nel 1985 toccò il suo punto di massimo con il 12,2% del Pil di cui 3,9 punti percentuali dovuti all’eccesso di spese al netto degli interessi sulle entrate (disavanzo primario); da allora il disavanzo ha cominciato molto lentamente a scendere. Nel 1992 era arrivato al 10,4%, ma, svolta rilevante, il disavanzo primario da quell’anno è diventato un avanzo e quindi la spesa per interessi era passata dall’8,3% del Pil a poco sopra l’11%. In altre parole, da 27 anni i nostri conti pubblici hanno entrate maggiori delle uscite al netto degli interessi. La difficoltà a far scendere il disavanzo, quando si è in presenza di avanzo primario, è quindi dovuta alla impossibilità di comprimere l’onere da interessi che, generando disavanzo, fa crescere il debito, il quale, a sua volta, implica maggiori interessi: la palla di neve che diventa valanga.
Alla luce di questa osservazione, si può capire perché le istituzioni economiche internazionali si soffermino spesso sull’elevato livello del nostro debito pubblico in rapporto al Pil. Ad alimentare l’effetto palla di neve nel tempo hanno contribuito molto i maggiori tassi di interesse che abbiamo dovuto pagare e stiamo ancora pagando rispetto agli altri paesi, in particolare rispetto alla Germania. A metà degli anni novanta questa differenza era di circa 600 punti base dovuti al rischio cambio. Dopo la nostra adesione alla moneta unica, questo rischio scomparve e la differenza scese a circa 30/40 punti base. In prossimità della crisi finanziaria è comparso il rischio default e questa differenza si è allargata nuovamente, fino a circa 500 punti base (pb) nel 2011.
In seguito, il sostanziale allineamento della nostra politica di bilancio al percorso suggerito dalla Commissione Europea per la riduzione del peso del nostro debito pubblico aveva ridotto i timori di un suo default e quella differenza era scesa fino a 110 pb a marzo 2018.
Ridurre il peso del debito pubblico è quindi un processo lungo; la sua diminuzione richiede un difficile equilibrio nella politica economica tra stimoli alla crescita, per aumentare le risorse su cui il debito pesa, e garanzia che tali stimoli di bilancio siano compatibili con un percorso di lungo periodo che assicuri la lenta ma progressiva riduzione del debito. Se la fiducia in questo percorso viene meno, il finanziamento del disavanzo, che, nel nostro caso, è costituito solamente da interessi sul debito passato, diventa più costoso in quanto cresce il rischio percepito che al momento del rimborso dei titoli in scadenza possano esservi sorprese.
Per consolidare questa fiducia, il sistema politico deve essere in grado di enunciare linee guida della politica di bilancio per il perseguimento di tale obiettivo in modo credibile. Una forma di garanzia di questo genere è in atto dal 2011 quando il governo Berlusconi inaugurò la pratica di assicurare il contenimento del disavanzo in prospettiva con impegni a legiferare, in futuro, in modo restrittivo su fisco e assistenza. I successivi governi hanno specificato questi impegni in modo più cogente chiedendo al Parlamento di deliberare aumenti di Iva a partire dal secondo anno di validità delle Leggi di Bilancio (LdB) via via proposte. Il più recente atto di questa storia è costituito dalla LdB 2019 che, dopo aver abolito l’aumento previsto per il 2019, prevede un aumento di Iva dal primo gennaio 2020 per un gettito di 23 miliardi aggiuntivi.
Quest’ultimo è il cuore del disegno di LdB attualmente in discussione, che prevede l’abolizione dell’aumento dell’Iva per il 2020. Il finanziamento del mancato aumento dell’Iva toglie spazio al sostegno all’attività economica e all’aiuto alle famiglie e non consente la discesa del disavanzo nel 2020 rispetto al 2019 (2,2%). Ciò non sta incidendo sulla ‘fiducia dei mercati’ per l’atteggiamento pro europeo dell’attuale governo ed è giustificato dal rallentamento dell’attività economica generalizzato a tutte le economie. È, comunque, necessario mostrare che nel 2021 il disavanzo scenderà e a questo fine la LdB 2020 contiene l’aumento dell’Iva dal primo gennaio 2021, per un ammontare di 18 miliardi. Il prossimo anno si presenterà un analogo problema.
Data la situazione congiunturale, giustamente, invece di usare il risparmio di interessi, dovuto allo spread più basso e al basso livello dei tassi di interessi, per ridurre il debito, il disegno di legge lo destina a nuove spese per il sostegno dei redditi medio bassi e per l’investimento in innovazione da parte delle imprese. Ciò nella speranza che lo stimolo sia sufficiente a consentire una tenue ripresa che dovrebbe impedire l’aumento del peso del debito in termini di Pil.
Le obiezioni circa la insufficienza degli stimoli alla crescita sono molto diffuse. Eppure, come è stato osservato, «consolidare la fiducia dei mercati e i bassi tassi di interesse è di per sé il più grande aiuto alla crescita che in questo momento si possa dare».
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