Larghe frazioni dell’opinione pubblica occidentale, supportate – negli sfondi valoriali delle proprie ispirazioni di giudizio – dalla dottrina critica della cosiddetta esportazione della democrazia, sono venute allineandosi nella confortevole, inerte agevolezza del rifiuto delle ingerenze, quand’anche umanitarie, esperibili nei contesti lacerati di comunità nazionali ancora estranee alla pratica democratica.
La natura emblematica del recente caso afghano sollecita a cimentarsi col delicato ingaggio interpretativo di questo umanitarismo debole, di cui la sensibilità civile e culturale occidentale sembrerebbe essersi profondamente innervata.
Nelle regioni del mondo in cui la carenza di statuti democratici conviva con le urgenze impellenti dettate dalla miseria e dalle emergenze sanitarie, la questione dei diritti civili, sociali e politici si intreccia inestricabilmente al tema dell’intervento umanitario.
Ritrarsi dagli impegni militari e di peacebuilding nelle zone martoriate del pianeta – presso le quali appaia irragionevole la possibilità, per gli Stati occidentali, di continuare a lucrare utilità geopolitiche o più prosaicamente economiche – costituisce l’opzione meglio espressiva delle miopi convenienze di finanza pubblica e di consenso interno.
La crisi afghana finisce così col diventare la riproduzione ennesima di una tragedia politica che, per definizione, rimane inconclusa e svuotata di orizzonti progressivi.
Nei pregevoli lavori pubblicati in tema di etnocentrismo e di acculturazione, Tzvetan Todorov rimarcava la nient’affatto ingenua pericolosità del neoimperialismo occidentale (statunitense in particolare), declinato nelle forme storiche del messianismo politico, che pretendesse di convertire alla democrazia – per via bellica e occupativo-militare – intere moltitudini ispirate dalle logiche tradizionali e dai retaggi delle culture autoctone locali.
In particolare, la censura del ricorso all’ingerenza politica (insieme culturale e militare), finalizzata a sostenere la difficile costruzione di sistemi democratici in seno all’esperienza di Paesi socialmente organizzati su basi confessionali o tribali e lungamente dilaniati da guerre civili, parrebbe poggiarsi sulla pietra angolare di un presupposto inconfesso e paradossale: l’esportazione della prassi democratica non potrebbe in ogni caso funzionare all’interno di sistemi sociali caratterizzati da tradizioni secolari, vincoli ancestrali e tare native insuscettibili di essere ricondotte alla prassi ragionevole e tollerante degli statuti democratici conosciuti.
Questo specifico orientamento culturale occidentale finisce, in tal modo, per cristallizzare, secondo i più avanzati stilemi del linguaggio e del pensiero politicamente corretti, il pregiudizio intrinsecamente etnocentrico dal quale pure ambirebbe di liberare le popolazioni subalterne e di potersi esso stesso sentire affrancato.
Non soltanto la faticosa strutturazione di sistemi democratici, ma anche la sola stessa istituzione di corridoi umanitari postulerebbe di essere sostenuta dall’intervento internazionale, nei termini dell’ingaggio militare o secondo l’attivazione degli strumenti di supporto e di interdizione auspicati dal pacifismo laico e cattolico (penso in particolare a quello di matrice sturziana).
La tensione paralizzante dei veti incrociati tra le nazioni e le organizzazioni internazionali conduce allo snodo fattuale di un regime autoritario vincolato al sostegno di relazioni orientali privilegiate (con la Cina, con il Pakistan, con la Russia), entro le quali si mostra flebile e incerto lo spazio di agibilità necessario all’efficace rivendicazione di diritti umani, civili e politici.
Ed eccolo dunque prospettato, dinanzi agli occhi dell’opinione pubblica planetaria, lo scenario fosco, e perciò rimuovibile, di persone umane, comunità e moltitudini assorbite dallo stigma consapevole dell’irredimibile arretratezza, riproduttiva – nei suoi atavismi – della negazione dei diritti civili e politici, della repressione violenta del dissenso, della sottomissione femminile, della mortificazione dell’infanzia e di ogni possibilità di riscatto.
In Afghanistan le forze resistenti non rappresentano l’espressione di élites isolate ed inesorabilmente minoritarie: e tuttavia, pensare che queste generazioni di combattenti e di idealisti, di riformatori e di visionari, di studentesse e di madri, possano da sole esperire vittoriosamente il proprio anelito democratico contro la forza repressiva dell’oscurantismo talebano, senza l’intervento di alcun sostegno organizzativo o militare esterno, equivale ad illudersi che il seme della democrazia possa germogliare e fiorire anche tra le aridità rovinose delle trascuratezze occidentali.
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