L’emergenza pandemica ha cambiato radicalmente non solo il modo in cui si vive ma anche quello in cui si muore. Da un lato, infatti, ci ha costretto a pensare tutti i giorni alla morte, un pensiero sovente rimosso, ma ora attivato dalla quotidiana informazione dell’alto numero dei decessi; dall’altro ci ha sottratto i metodi tradizionali di elaborazione del lutto, privandoci dei riti funebri e, soprattutto, della consolazione del contatto fisico e affettivo nell’ultimo saluto.
Chi potrà cancellare dalla nostra memoria le immagini sconvolgenti dei camion dell’Esercito che trasportano per la cremazione i morti lontano da chi li ama? Ma anche quella del frate dell’ospedale di Bergamo, che poggia il cellulare acceso sulle bare per pregare coi parenti lontani? O i messaggi strazianti di chi resta, le ultime parole d’addio affidate ai necrologi?
Nella pandemia ogni morto diventa un numero, non è più una persona. La morte stessa, in cui si riassume il senso della nostra esistenza, ridotta a mero fatto biologico, è privata di ogni simbologia e, cancellata la tragicità del trapasso, diventa pura notizia, dato statistico, registrazione burocratica degli scomparsi, rilevante solo da un punto di vista clinico e epidemiologico. L’emergenza ha annullato ogni ritualità e tuttavia noi continuiamo tenacemente a sentire la necessità di un tempo di raccoglimento per l’estremo saluto.
Come potremmo sottrarci al vissuto doloroso di chi vede i propri cari sparire nel nulla? Quali costi psicologici avrà la mancata elaborazione del lutto? Ciò vale sul piano personale come su quello collettivo. Abbiamo bisogno non solo di consigli di prudenza, di norme per evitare il contagio ma anche di riti, di momenti di forte valore simbolico dal momento che siamo, appunto, animali simbolici, chiamati a conferire senso e significato agli eventi della nostra vita. Ne è segno la giornata di commemorazione delle vittime del Covid-19 celebrata il 18 marzo.
«Mai come oggi gli uomini sono morti così silenziosamente e igienicamente e mai sono stati così soli». Le parole davvero profetiche del sociologo Norbert Elias in un saggio di molti anni fa, La solitudine del morente, si riferivano ad una situazione caratteristica della modernità, contrassegnata dalla formalizzazione razionale della morte: il moribondo riceve le cure mediche più avanzate e scientifiche ma i contatti con le persone cui è affezionato e la cui presenza potrebbe essergli di grande conforto nel momento del distacco sono considerate un inconveniente che disturba il trattamento razionale del malato.
Quello di Elias era un invito alla riflessione sull’incapacità, propria della società in cui viviamo, di dare ai morenti quell’assistenza di natura non esclusivamente medica di cui essi hanno bisogno per superare l’angoscia degli ultimi istanti. E oggi? Si muore clandestinamente – è stato detto. Nessun parente è accanto al letto, in ospedale, nessun saluto è possibile. Le regole severe che mirano a impedire la diffusione del virus ci vietano sia di toccare la mano di chi muore sia di venir toccati dalla sua. In tal modo, la lotta contro la pandemia, in nome della tutela della salute nostra e altrui, ci impone la rinuncia ai gesti più elementari di tenerezza nell’ora del dolore.
Morire soli, senza una mano da stringere o una parola da scambiare, rimanda a un complesso di significati. Innanzitutto alla consapevolezza del fatto che l’esperienza della morte non può essere condivisa con nessuno, ma anche al sentimento che con la morte sparirà per sempre il piccolo mondo di ricordi, conoscenze, esperienze legati alla propria persona, e, infine, non dimentichiamolo, alla sensazione terribile di essere abbandonati da tutte le persone cui si è affezionati. Oggi, per chi muore solo in questo tempo sbagliato, temo sia questo il significato dominante.
Credo, tuttavia, che quello che stiamo vivendo ci porterà a rimettere in questione le nostre stesse condizioni di esistenza. Avevamo elaborato sapienti tecniche di rimozione della morte, quelle, ad esempio, descritte dallo storico Ariès in uno dei suoi testi più noti, Storia della morte in Occidente, in cui veniva coniata la categoria della morte ‘proibita’, sentita come un’oscena bestemmia che infrange le leggi del benessere e della felicità di massa, le parole d’ordine della società contemporanea.
Oggi lo scenario è cambiato. Qualcuno ha detto che sembra di assistere alla danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l’antico dalla paura di un nemico terribile: allora la peste nera, oggi la pandemia del coronavirus. Se le promesse della tecnologia e le conquiste della rivoluzione biologica ci avevano fatto sentire onnipotenti, quasi esseri extranaturali, l’ecatombe di cui siamo testimoni ci ricorda che siamo di fatti di cellule e sangue, esseri biologici che si ammalano e devono fare i conti con la morte come destino ineluttabile. Il contagio ha reso più evidente il nostro essere esposti alla natura, a ciò che non è sotto il nostro controllo, restituendoci la corporeità assoluta della malattia, del sovraffollamento degli ospedali, della fatica fisica e della tensione psicologica dei medici e degli infermieri.
Anche qui, tuttavia, possiamo mettere in atto meccanismi di distanziamento tra noi – gli scampati, gli incolumi – e loro – i contagiati, le vittime del virus. Quali? Ad esempio, la constatazione dell’età avanzata e la certificazione di patologie pregresse, che sembrano farne vittime designate. Schermi protettivi che dovrebbero tranquillizzarci, aiutandoci a superare l’impatto devastante su di noi della minaccia letale del virus al prezzo, tuttavia, sia di indebolire la coesione sociale che si stava faticosamente ricostruendo, sia di ostacolare l’apprendimento di quel senso del limite che poteva diventare senso di responsabilità verso la nostra vita, verso gli altri, verso il pianeta che ci ospita.
Riconoscerci esposti, ora più che mai, al rischio della nostra morte, dovrebbe infatti anche farci temere, nel mondo interconnesso che abitiamo, quello dell’estinzione della nostra specie. La pandemia, il nemico mondiale che insidia l’esistenza stessa dell’umanità, fa di noi, che ci piaccia o no, un’unica popolazione, una vera e propria comunità di destino.
Lascia un commento