La situazione in cui versa il Partito democratico preoccupa non soltanto i suoi elettori, ma tutti coloro che ritengono che la stabilizzazione del nostro sistema dei partiti sia un fattore cruciale per il destino del nostro paese. In questa prospettiva, la caotica reazione al responso elettorale dello scorso 4 marzo non è di buon auspicio. Tuttavia, nelle pieghe del dibattito, si è profilata una linea di divisione che, depurata dai personalismi e dai tatticismi, configura un’alternativa di grande significato: una strettoia che imporrà una scelta, se questa forza politica vorrà avere un futuro. L’alternativa è tra chi prospetta il ritorno a un partito di sinistra, per quanto moderata; e chi invece coltiva l’idea di una svolta verso la costituzione di un ‘fronte repubblicano’, da contrapporre all’avanzata del ‘populismo sovranista’.
Si tratta evidentemente di una questione che non investe il solo PD, ma riguarda praticamente tutte le forze politiche che in Occidente hanno incarnato in varie guise gli ideali della tradizione ‘socialista’. E si tratta, altrettanto evidentemente, di alternative incompatibili, e di due percorsi disseminati di ostacoli. Ciascuna meriterebbe una discussione approfondita, che qui non si può nemmeno abbozzare. Si può però provare a individuare quel che a chi scrive sembra l’ostacolo principale, diverso a seconda dell’alternativa prescelta: il capo delle tempeste di una navigazione che si preannuncia comunque estremamente pericolosa. Dispiace di non essere in grado di additare soluzioni, di suggerire terapie; ma prima delle terapie servono le diagnosi, e quelle in circolazione non sempre appaiono convincenti.
Dedichiamo un po’ di attenzione alla prima alternativa. Tradotta in un linguaggio appena un po’ più tecnico, essa si reggerebbe sulla scommessa di mantenere in vita – o forse sarebbe più corretto dire rivitalizzare – l’asse sinistra-destra come architrave della lotta politica. È un compito improbo, poiché richiede l’ideazione di un modello di sistema politico e sociale, nello stesso tempo, distante da quello sepolto sotto il crollo del muro di Berlino, e diverso dall’esistente. Del fatto che di un simile modello al momento non esista traccia si deve purtroppo prendere atto; né si tratta di faccende che si possono improvvisare sui due piedi.
Ciò detto, resta il fatto che, per coloro che si propongono di rinverdire i fasti della sinistra storica, la presa di distanze dall’ordine – o disordine – esistente è una necessità. E il primo passo che si può muovere in quella direzione non può prescindere dalla revisione critica del modo in cui i partiti della sinistra hanno reagito alla perdita dei punti di riferimento su cui avevano in passato costruito le proprie fortune elettorali. Alcune di queste modalità riguardano la vita interna delle forze politiche: prima tra tutte, la generalizzata rinuncia all’organizzazione, sia pure ‘alleggerita’, che ha comportato semplicemente il progressivo distacco dalle proprie basi elettorali e l’incapacità di intercettarne e disciplinarne bisogni e umori.
Questo stato di cose viene in genere ricondotto a una peculiare condizione delle società avanzate: la perdita di rilievo del settore industriale, una complessificazione sociale che alimenta forme di individualismo atomizzato, l’irruzione dei nuovi media che moltiplicano e frammentano ulteriormente i ‘pubblici’ di riferimento, ecc. In breve, si delinea una situazione in cui sembra disperata la ricerca di qualcosa, o qualcuno, da rappresentare politicamente. Ma questa diagnosi poggia su una visione gravemente distorta del rapporto tra politica e società: essa ignora il contributo decisivo dell’azione politica nella costituzione stessa dei soggetti sociali – non c’è nessuna classe gardée, come non c’è nessun ‘popolo’, che esista in natura: che non siano stati prima immaginati, e poi pazientemente costruiti dalla politica. Questo è il vuoto da colmare, e gli ingredienti richiesti sono due: l’organizzazione, senza la quale l’azione politica è sempre inefficace; e uno schema di valori capace di suscitare speranze e incanalare energie. Le leadership sono indispensabili, ma vengono dopo.
Sotto quest’ultimo profilo, si deve ammettere che le dirigenze politiche che si sono trovate a gestire la difficile eredità del socialismo europeo non hanno potuto trovare alcun punto di appoggio nella sfera del pensiero politico. Al contrario, in quest’ambito più che altrove il distacco dalla tradizione e un’insensata corsa alla ‘specializzazione’ hanno contribuito a sterilizzare il contributo che dovrebbe venire da un’intellettualità all’altezza del suo ruolo sociale; sicché né la filosofia politica né la scienza politica possono vantarsi di aver immesso nel dibattito dell’ultimo mezzo secolo una sola idea originale, capace di fungere da perno su cui erigere un progetto innovativo utile anche nella battaglia politica. La pletora di economisti e di giuristi che popola pressoché ovunque le stanze e le anticamere del potere non è che il riflesso di questa abdicazione. Anche per questa ragione, l’alternativa che si propone il recupero ammodernato della tradizione del socialismo europeo si presenta impervia.
E veniamo ora al secondo percorso. Qui il tema, ridotto all’osso, è il seguente: se l’alternativa ‘repubblicana’ pretenderà di ignorare la questione della sovranità sarà prevedibilmente destinata al fallimento. Se invece lo affronterà, dovrà porsi il problema del luogo che può realisticamente ospitare la decisione sovrana, lasciando perdere una volta per tutte le stupidaggini della ‘governance multilivello’. La frammentazione e dispersione del potere politico in tutto l’Occidente hanno da tempo superato il livello di guardia, e rendono inermi di fronte a qualsiasi sfida seria.
In questi frangenti, è inevitabile che ci si appelli alla politica: non lo faranno gli economisti, per la maggior parte dei quali la politica continua a costituire un incomprensibile enigma; ma lo fanno, eccome, gli operatori economici, che sanno benissimo quanto siano importanti le condizioni politiche per la salvaguardia e la promozione dei loro interessi. E la politica, anche quella democratica, a differenza dell’economia non solo ammette, ma esige il monopolio, nel senso della decisione ultima cioè, appunto, sovrana. L’ordine spontaneo, quando non è garantito politicamente, è la guerra di tutti contro tutti.
Il ‘sovranismo’ neo-nazionalista rappresenta nient’altro che il tentativo di recuperare – o rafforzare, dove non è andato del tutto perduto – il controllo politico su ambienti sociali e forze economiche che si muovono in contesti sempre più turbolenti: e che sono tali perché, al di là delle crisi più o meno congiunturali, nei decenni precedenti quei contesti sono stati accuratamente e autolesionisticamente ‘depoliticizzati’, stritolati nella morsa tra l’efficientismo economicistico e l’ingessatura giuridica di tutto il giuridicizzabile. La domanda che sale dal basso, rabbiosa e talvolta disperata, non è unificata dai contenuti, che sono diversi e persino opposti; ma dal mezzo, dallo strumento che si immagina li possa concretizzare: è domanda di governo, nel senso classico del termine. Si può considerare antistorico il tentativo dei ‘sovranisti’, o addirittura reazionario: ma l’unica possibilità di contrastarlo efficacemente consiste, per la parte di Occidente che non sono gli Stati Uniti, nel ripristino della sovranità politica su una scala diversa. Ed è questa, in effetti, la sfida che sta di fronte all’Europa, e che deciderà del suo destino. Ci vuole una buona dose di ottimismo per ritenere che sussistano le condizioni, culturali e politiche, per affrontarla con qualche speranza di successo.
Francesco dice
Ha ragione Liborio Mattina. La questione della sovranità è comunque ineludibile, quale che sia l’alternativa prescelta. Se si va però verso il ripristino di una “sinistra”, mi sembra che il problema del quadro di valori sia il più serio, perché comporta l’individuazione di un modello di società diverso dall’esistente, e in particolare il ripensamento del rapporto tra politica e economia
Liborio Mattina dice
Puntare su organizzazione e valori come condizioni per rinnovare la sinistra storica. Va bene. Mi chiedo, però, perché la ricostruzione dei valori non possa prevedere anche una rigenerazione del concetto di sovranità che – se realizzato con successo – renderebbe superflua l’ipotesi della costruzione di un “fronte repubblicano”.