L’aneddoto di Gianfranco Pasquino sulle due adolescenti dinanzi a una vetrina Feltrinelli che commentano la copertina del Nome della Rosa stupite della rapidità con cui si è scritto il libro appena dopo l’uscita del film racconta parecchie cose. Per il tempo, eravamo ancora lontani dai nativi digitali e per il riflesso automatico, condizionato. Si partiva comunque dall’immagine per risalire al verbo. Il che, a ben guardare, incrocia quasi naturalmente l’intuizione di Enrico Letta a tradurre in pillole parlate e visive i singoli capitoli del suo bel libro così da invogliare qualche millennial a sfogliarne le pagine. Tutto sommato gli esempi di questa nuova – se tale poi è – pratica del racconto non mancano. Dal Veltroni conferenziere sulla ‘Buona politica’ col corredo di filmati e cimeli d’epoca all’ultimo arrivato, quel monumento di Bernard Henry Levy impegnato in un testo quasi recitato sul destino dell’Europa in balia dei sovranisti. E poi la messe di reading, lezioni, happening discorsivi che riempiono decine di festival da cima a base della penisola coinvolgendo qualcosa come tre o quattro milioni di affezionati. Siamo sulla linea di confine tra il teatro-racconto di Paolini, Vacis, Celestini, Baliani e la letteratura narrata di Baricco, un po’ il capostipite, seguito da infiniti altri. A colpire è la politica costretta, si fa per dire, a incunearsi nel genere. In parte nell’idea che sia la strada migliore se il traguardo è recuperare un appeal completamente archiviato nelle pratiche retoriche – lingua postura intonazione – del vecchio approccio parlato. Ma per un altro verso rischia di essere un atto di sottomissione a prassi e contesti che banalmente non sono quelli delle culture politiche per come le avevamo lungamente intese e interpretate: più o meno formidabili canali di accesso e comprensione e interpretazione della realtà, pur sempre nella logica ambiziosa di mutarla secondo ispirazioni e valori antagonisti. Ecco, di quella pratica è rimasto poco o nulla se non l’erudizione di alcuni, virtù non per forza sinonimo di cultura, e una certa captatio benevolentiae adattata allo schermo-piazza, ma in sé abitudine non granché distante dai nomenclatores di epoca ciceroniana. Bene, in sintesi che si tratterebbe di fare? Direi l’impossibile. Ricostruire parametri e confini per i generi. Non come un obbligo, intendiamoci. Direi piuttosto come forma residua di autodifesa. Perché poi che la politica televisiva dentro e fuori la quota sterminata di talk h.24 porti a mescolare informazione, politica e intrattenimento sino a sconfinare nel comico e nell’intermezzo che alleggerisce il peso dei temi, ecco tutto questo pare abbastanza inevitabile. A ciascuno il suo battutista, lo scrittore di grido, il polemista aggressivo, la ‘voce’ del popolo, il politico in ascesa e quello in disgrazia. Matricole e meteore come quel vecchio programmino tivù sui volti dimenticati. Ci sta. Può piacere o no, ma fa parte dell’economia di una televisione che vive della scelta di far sedere allo stesso tavolo lo storico di professione e la persona di spettacolo convinta (è accaduto l’altra sera) che in Italia non si voti da dieci anni. Il punto è se la politica, nella sua dimensione culturale e di identità assieme al percorso formativo della sua classe dirigente, pensa davvero di potersela spicciare delegando ad agenzie altre (studi televisivi o social) una funzione che dalla nascita dei partiti di massa erano stati quegli stessi partiti a ricoprire. Si tratta di tornare lì, a quel modello? No, questo è impossibile e tutto sommato neppure auspicabile. Ma riscoprire un pizzico di dignità nel dire e nel pensare, insomma questo almeno perché no?
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Maurizio Griffo dice
In televisione una volta c’era il varietà (con Walter Chiari, Paolo Panelli, Raimondo Vianello) e poi c’era Tribuna Politica. Adesso ci sono i talk show. Ha ragione Cuperlo, bisogna tornare a tenere distinti i generi.
Gianfranco Pasquino dice
Proviamo a riscoprirlo questo “pizzico di dignità nel dire e nel pensare”. Sono molto d’accordo con Gianni Cuperlo. Dobbiamo, però, tutti, sapere che è un’operazione di alta pedagogia politica. Quelli che alcuni non-politici, Berlusconi in primis, ma anche Monti, in secundis, e alcuni politici “leggeri”, Veltroni ueber alles, hanno fatto con le loro incontrastate narrazioni, non può essere cancellato con poche azioni mirate di alcuni predicatori politici. Da Cuperlo e da altri che so preoccupati dalla decadenza politica italiana vorrei indicazioni più precise. Spesso (non sempre) Paradoxa opera nella giusta direzione della riflessione politica che non ha bisogno di asprezze e di nemici, ma di obiettivi e di persone interessate non a fazioni, definirle “culturali” sarebbe troppo, ma al benessere del sistema politico italiano e europeo.
Dino Cofrancesco dice
«Bene, in sintesi che si tratterebbe di fare? Direi l’impossibile. Ricostruire parametri e confini per i generi. Non come un obbligo, intendiamoci. Direi piuttosto come forma residua di autodifesa». Obscurum per obscurius commenterebbe il mio Maestro Norberto Bobbio