[Editoriale di «Paradoxa» 4/2020, Fine della storia?, a cura di Giovanni Belardelli]
Di questi tempi, purtroppo, può capitare facilmente di perdere il senso del gusto o dell’olfatto. Il nostro tempo – questa la tesi del presente fascicolo – ha perso il senso della storia, diventando a tal punto insensibile alla diversità di sapori e odori del passato da rendere legittimo il sospetto che essa sia ormai giunta alla fine. La storia, beninteso, come disciplina, perché alla fine della storia come tale nessuno sembra credere più: con buona pace di Fukuyama, il cui nome significativamente (e a dispetto di una quasi omonimia di titolo con il celebre saggio del 1992) non affiora mai nelle pagine che seguono.
In estrema sintesi, curatore e autori sollecitano a prendere atto del fatto che ‘contemporaneità’ non è più soltanto l’ovvia definizione del tempo in cui viviamo, ma un carattere qualitativo, e piuttosto aggressivo, di quest’ultimo, che tende ad includere forzosamente nella prospettiva del presente ogni altra dimensione temporale, omogeneizzando ogni discontinuità ed ergendosi a unità di misura e criterio di valore di qualsiasi fatto, evento o personaggio: sotto questo profilo le differenze, per dire, tra l’apostolo Paolo, Cristoforo Colombo e Thomas Jefferson contano assai meno della loro comune e riprovevole condiscendenza verso la schiavitù, nella quale sembra esaurirsi l’intera loro portata storica.
A questo problema, esaminato qui nei suoi molteplici livelli (politico, didattico, giuridico, psicologico e sociale), se ne aggiunge un altro che potremmo definire di metalivello, e che costringe gli autori – e di conseguenza il lettore – a tenere, per dir così, continuamente il piede in due staffe. Possiamo dirlo con una lapidaria affermazione di Oswald Spengler: «Ogni vera storiografia è vera filosofia; altrimenti è davvero un lavoro da formiche» (Il tramonto dell’Occidente, pp. 72-73).
Il che significa che è impossibile riflettere sulla perdita del nostro senso per la storia senza che esploda la questione del ‘senso’ della disciplina storica come tale, chiamando in causa il problema del suo statuto epistemologico, della consistenza teorica dell’oggetto ‘storia’ e delle categorie con cui si tenta analizzarlo. E in effetti ciascuna delle questioni qui toccate ha una sua risonanza filosofica, che ci si deve sforzare di tenere sotto controllo per evitare che l’analisi sfugga di mano, ma che non è possibile ignorare senza comprometterne l’efficacia.
Consideriamo, per esempio, la questione delicatissima del contenimento della funzione dell’immaginazione nel rapporto con la storia; questione che emerge tanto, in modo diretto, nei contributi che mettono in guardia rispetto alla tendenza ad ‘inventare’ il passato (il medioevo essendo uno dei territori prediletti del nostro immaginario storico), quanto, in modo indiretto, in quelli che studiano il problematico ricorso alla storia nel processo di definizione, di autocomprensione e talvolta, anche qui, di vera e propria invenzione dell’identità nazionale (si vedano in particolare i contributi sull’attuale ‘politica’ della storia negli Stati Uniti e in Cina).
Ora, l’insistenza, opportuna e doverosa, sulla necessità di salvaguardare la specificità e i risultati della ricerca storica rispetto ad arbitrî dettati da finalità e usi esogeni tiene giustamente sullo sfondo, ma non risolve, il problema altrettanto delicato della funzione irrinunciabile per lo storico di quell’operazione di «configurazione» degli eventi che solo l’immaginazione rende possibile e che somiglia terribilmente alla messa in opera di un intreccio narrativo.
È significativo che Paul Ricoeur, al termine di una delle più ampie e lucide analisi del rapporto tra la storia come disciplina e la storia come narrazione – che tiene conto, per altro, di una vasta gamma di modelli storiografici alternativi a quello ‘evenemenziale’ (dalle Annales all’approccio fenomenologico di Mandelbaum) –, affermi la «derivazione indiretta delle strutture della storiografia dalle strutture di base del racconto» e non possa evitare di riconoscere che «gli eventi storici non differiscono radicalmente dagli eventi inquadrati per mezzo di un intrigo» (Tempo e racconto, p. 307).
Altra questione filosoficamente scottante è quella sollevata dalla denuncia degli effetti distorsivi sulla comprensione storica del privilegio metodologico del punto di vista della vittima. Anche in questo caso si tratta senza dubbio di un opportuno monito rispetto ad una tendenza largamente diffusa nella percezione contemporanea del passato, che finisce per rendere impossibile un approccio sanamente avalutativo (nel senso weberiano dell’aggettivo) e una chiara consapevolezza della distinzione tra comprendere e giustificare in mancanza della quale la storia si condanna ad ammutolire di fronte a tutto ciò che, non essendo giustificabile, non è nemmeno comprensibile.
Tuttavia, anche in questo caso, è necessario riconoscere che non si tratta di una distorsione imputabile ad un errore contingente della contemporaneità, ma di qualcosa che affonda le sue radici ben più in profondità nella nostra identità culturale, che ha sempre intrecciato l’idea stessa di passato con quella di una colpa originaria e tragica. È suggestiva l’osservazione del Curatore per cui la Shoah sarebbe una «rivelazione del male», ma forse è eccessivo considerarla come «del tutto opposta a quella cristiana» (p. 26), nella misura in cui anche per il cristianesimo il novum della redenzione ha un rapporto privilegiato con il futuro che presuppone, e non contraddice, la rivelazione di un male sempre già accaduto, quintessenza di un passato che in quanto tale è appunto da redimere.
D’altra parte, l’ambizione a liberarsi da un passato inteso come fardello è iscritta nel codice genetico della modernità, che si costituisce proprio nella pretesa di porsi come un inizio radicalmente nuovo. Forse nel gesto cartesiano di affrancarsi dall’intera tradizione nella quale si è formato c’è già il germe di una cancel culture.
Si potrebbe naturalmente proseguire a lungo nell’esplicitazione del versante filosofico delle questioni sollevate da questo fascicolo, tra i cui meriti c’è anche quello di sollecitarne subito un altro. Concludiamo sulla domanda forse più difficile di tutte, che proietta sull’intera riflessione l’ombra imponente e scomoda di Hegel: ma si può davvero scrivere una storia, qualsiasi storia, senza che ne sia in qualche modo già accaduta la ‘fine’?
Dino Cofrancesco dice
Una riflessione davvero profonda e meditata! Avrei solo qualche obiezione da fare alla tesi che “forse nel gesto cartesiano di affrancarsi dall’intera tradizione nella quale si è formato c’è già il germe di una cancel culture”. In realtà, se la modernità inizia col Rinascimento, è il ritorno dell’antico che la caratterizza. Cancel culture per il medioevo ma gli antichi visti come giganti sulle cui spalle posano i ‘nani’ moderni..