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Il sessantottismo come anticomunitarismo assoluto

29 Novembre 2018 di Dino Cofrancesco 2 commenti

Nel corso delle tavole rotonde dedicate alla presentazione del fascicolo di «Paradoxa», da me curato, Il 68 italiano. Radici storiche e culturali, ho provato una sensazione di disagio ogni volta che un relatore ha commentato il mio saggio Il Sessantotto e la Resistenza. Eccetto Andrea Bixio, quasi tutti hanno ripreso i temi da me trattati in un’ottica ‘societaria’ – riferita alla forma di governo nata dalla lotta antifascista, alla political culture, all’ideologia del regime, ai programmi e alle filosofie dei partiti politici che ereditarono, nel 1945, un paese a pezzi. Indubbiamente anche nel mio saggio c’era tutto questo, ma, ahimè, debbo constatare che non sono riuscito a spiegarmi chiaramente dal momento che anche attenti lettori non hanno compreso che il piano del mio discorso non era quello del conflitto sociale e politico intra moenia, ma quello della comunità politica. Nella mia prospettiva, la crisi del principio di autorità – così bene analizzata nel saggio di Paolo Bonetti ma anche in altri – o l’impatto dell’università di massa sulle vecchie istituzioni accademiche, per limitarmi a due esempi, diventano, pur nella loro rilevanza, epifenomeni o meglio sintomi di una malattia profonda, alla quale non si rimedia coi blandi antibiotici del recupero di virtù antiche – responsabilità, professionalità, senso del dovere, rispetto del sapere, culto della scienza. La malattia è la crisi della comunità politica – la «morte della patria» per dirla con l’espressione di Salvatore Satta che Ernesto della Loggia scelse come titolo di un suo noto libro –ovvero l’assoluta incapacità di sentirsi parte di una ‘nazione’ (termine non certo caro alla political correctness), indipendentemente dalle opinioni e dalla varietà dei partiti in competizione per il potere. Non può esserci ‘senso dell’autorità’ in astratto se quanti ne sono portatori – in famiglia, a scuola, sul luogo di lavoro – non vengono percepiti come ‘funzionari’ e simboli di qualcosa che li (ci) trascende. Che non può essere l’Umanità ma un suo segmento, cui si attribuisce valore in quanto depositario di beni preziosi ereditati dal passato e che si vorrebbero tramandare alle generazioni future, preservandoli, nella misura del possibile, dalle ingiurie del tempo.

L’identità etico-sociale dell’uomo e cittadino non è fatta di ‘diritti universali’ ma di fedeltà a un paese, a una storia, a un ‘mito di fondazione’, a un progetto di vita. Per dirla con una frase a effetto: non è la crisi dell’autorità che ha minato lo Stato nazionale ma è il tramonto, nelle coscienze, dello Stato nazionale che ha rimesso in discussione il principio di autorità. A riprova del fatto che è il potere (non solo quello economico, come erroneamente credeva Karl Marx) ad essere decisivo nella formazione degli stati della mente, non sono gli stati della mente a ‘istituire’ il potere (semmai possono solo mutarne la percezione).

Nella mia interpretazione del ’68, il movimento studentesco (e poi anche operaio) è stato –del tutto inconsapevolmente giacché non guardava all’Italia ma a Paris Nanterre alla California, alla California di Herbert Marcuse, alla rivoluzione culturale di Mao – il colpo di grazia inferto a una comunità  politica disastrata dal fascismo e dall’infame guerra dell’Asse. Il 68, nell’incontro col fondamentalismo antifascista della sinistra azionista (penso a un ‘cattivo maestro’ come il  Ferruccio Parri dell’«Astrolabio»), ha portato a compimento quel processo di snazionalizzazione delle masse che ha mandato in frantumi il Bel Paese e che aveva trovato un momentaneo sbarramento nei vecchi partiti e nelle loro logore ideologie ottocentesche. Dalla DC al PSI, passando per i partiti laici minori, gli attori politici della Prima Repubblica avevano ricostituito, per così dire, strisce di nazionalizzazioni parallele che all’ombra dello scudo crociato o della falce e martello facevano incontrare, e collaborare, il torinese e il palermitano, il toscano e il trentino. Lacerate quelle strisce – anche in virtù della ‘contestazione’ di ieri e del ‘populismo’ di oggi e non solo a causa della partitocrazia, cancro non immaginario dell’Italia postbellica –, la dissoluzione della ‘comunità di destino’ è stata inevitabile. E i suoi esiti culturalmente catastrofici.

Comunque si vogliano giudicare i gialloverdi al governo (e personalmente ne sono un critico convinto, anche se allergico all’antipopulismo viscerale di quanti hanno perso influenza e prestigio, solo nel migliore dei casi, per la loro assoluta inadeguatezza nel governo della nave Italia), il populismo sovranista non è un rigeneratore della ‘comunità politica’ e proclamare «prima gli Italiani!» non significa voler ritrovare le radici comuni – come tentò Bettino Craxi nell’effimera stagione del ‘socialismo tricolore’. Tra l’altro, è appena il caso di ricordare la prima Lega, che sputava sul tricolore, o i riti neoborbonici che hanno visto la convinta adesione dei pentastellati del Sud. Lo slogan «prima gli Italiani!» è uno squillo di tromba che invita ad armarsi contro altri italiani, accusati – un po’ ragione, un po’ a torto – di fare il gioco di potentati stranieri (le banche, l’eurocrazia etc.): non ha nulla a che fare col recupero di una identità storica e morale, che non può non significare la riscoperta (e rivitalizzazione) del nostro mito di fondazione, il Risorgimento (almeno come tentativo onorevole..). È il contrario che questo governo continua a fare, col netto ridimensionamento dell’insegnamento della storia nelle scuole, un momento significativo  della ricordata opera  di snazionalizzazione delle masse, iniziata da quella sinistra azionista, che si è  rivelata la political culture vincente – assai più di  quella marxista, rappresentata da un PCI, indubbiamente ambiguo ma assai più radicato nella storia nazionale (v. la via italiana al socialismo). Non a caso la componente pentastellare del governo in carica fa pensare troppo spesso a una costola plebea del ’68.

Paradossalmente, eliminata la dimensione comunitaria, ci ritroviamo – come teme Pierre Manent – dinanzi un neo-tribalismo, che vorrebbe sotto sotto sganciarci dall’Europa, e a un universalismo panglossiano (v. «Il Foglio») che inneggia alla globalizzazione senza se e senza ma, strafregandosene delle sue vittime: «Avanti, alò, chi more more..» dice, nel sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli, l’alto prelato al cocchiere che, dopo aver travolto un passante, vorrebbe fermarsi e prestare soccorso.

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Commenti

  1. Francesco D’Agostino dice

    30 Novembre 2018 alle 12:30

    Punti di dissenso:
    1. Io mi sento parte di una “nazione” (quella italiana), ma non identifico la nazione italiana con lo Stato italiano. La nazionalità italiana mi esalta, la cittadinanza italiana mi umilia;
    2. Come “mito di fondazione” il Risorgimento è fallito. A parte Cavour, morto troppo presto, quali sono le figure mitiche del nostro Risorgimento? Vittorio Emanuele II (con i ridicoli monumenti trionfalistici che gli sono stati eretti)? Mazzini? Garibaldi?
    3. Snazionalizzare le masse? Ovviamente non se la snazionalizzazione è finalizzata a togliere identità. Ovviamente sì, se snazionalizzare vuol dire depoliticizzare. Vogliamo ragionarci sopra?

    Rispondi
  2. Michele Magno dice

    30 Novembre 2018 alle 0:34

    Splendida riflessione!

    Rispondi

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