La vittoria del Leave si è inserita nel pantheon del sovranismo, ossia la fede in un incontestabile primato del livello nazionale della politica. Ciò significa il dover recuperare a questo preciso livello (istituzionale e territoriale) il potere che si è disperso lungo i diversi e stratificati livelli della governance europea. Durante la campagna per il referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione europea, i sostenitori del Leave hanno usato l’immagine del confine come il più eloquente segno della differenza tra dentro e fuori, tra un presente segnato da incertezza e crisi e un futuro alternativo, nel quale l’autodeterminazione popolare sia ri-territorializzata. Da un lato, si è posta la prospettiva di ristabilire il pieno controllo sovrano sulle frontiere nazionali, la promessa di fermare l’immigrazione, l’assicurazione di riportare il potere nelle stanze del Parlamento, inside the Commons. Dall’altro lato, si è presentata Bruxelles come una città lontana, capitale di un altro stato, sede di una potente organizzazione sovranazionale, sinonimo di quella burocrazia federale che è l’esatto opposto della sovranità nazionale.
Dopo il voto sulla Brexit, tuttavia, per il governo britannico fu inevitabile ripensare non solo i rapporti con l’Unione europea nel corso dei negoziati, ma più in generale l’orientamento di politica estera del Regno Unito o, se si vuole, il suo destino geopolitico. A dispetto dei toni della campagna referendaria del Leave, complice il fatto che una visione internazionale non era stata oggetto di discussone, il primo ministro May e il ministro degli esteri Johnson hanno ripensato la politica estera impiegando la formula Global Britain, evocando cioè l’immagine di un Regno Unito veramente globale (a global Britain running a truly global foreign policy, nella parole di Johnson) e presentando la ritrovata sovranità come un dispositivo per fare di Londra un centro finanziario di un nuovo ordine internazionale liberale, tramutando così il sovranismo in globalismo. Sei mesi dopo il voto, presentando le dodici priorità per i negoziati con l’Unione europea, May fornì una interpretazione del Leave molto suggestiva: «The British people voted for change. They voted to shape a brighter future for our country. They voted to leave the European Union and embrace the world» (corsivo aggiunto). Brexit significava non solo lasciare l’Europa, ma anche abbracciare il mondo. Nel mutato contesto internazionale, col montare del populismo in Europa, l’Unione europea era vista come un macigno troppo pesante per poter cogliere le opportunità della globalizzazione e promuovere il mercato libero e la democrazia. Meglio sarebbe stato recuperare i rapporti con i paesi del Commonwealth.
Si può certo stigmatizzare come illusoria l’ambizione di recuperare un ruolo globale per il Regno Unito, e persino presentare il progetto Global Britain come un tentativo piuttosto patetico di rimettere indietro le lancette dell’orologio. Resta però il fatto che il sovranismo associato alla scelta del Leave è stato coniugato, tanto da May quanto da Johnson (almeno fino a quando è rimasto al Foreign Office), con il globalismo inteso come una sorta di Regain: riottenere una libertà d’azione per sfruttare le onde della globalizzazione. Del resto, nella campagna del Leave avevano trovato spazio, oltre i sovranisti più attenti alla chiusura dei confini, anche i cosiddetti ‘liberal leavers’, per i quali riguadagnare la sovranità avrebbe significato poter sciogliere i vincoli europei e rilanciare il Regno Unito nei mercati globali, secondo una ‘Singapore-on-Thames’ strategy. Al di là della realizzabilità di questo progetto, il caso inglese mostra come sia difficile ricondurre la nozione di sovranismo ad un significato generale che non contempli le specificità storiche e geopolitiche di ogni paese in cui il fenomeno si presenta.
Dino Cofrancesco dice
Una postilla ’filologica’ al bell’articolo di Diodato. Il sovranismo non è necessariamente isolamento, autarchia e protezionismo. Esso è la rivendicazione, da parte di uno stato, della piena libertà di azione in politica estera e in politica interna, in base al principio del ‘superiorem non recognoscens’. Il sovranista vuol avere le mani libere per fronteggiare e utilizzare la globalizzazione secondo le sue convenienze. In fondo, neppure il nazionalismo classico era tutto isolazionista e protezionista: una componente molto importante—poi sconfitta da Alfredo Rocco e Luigi Federzoni—era decisamente liberista e, p.c.d., agonistica.