Sono passati esattamente cinquant’anni da quando il rapporto commissionato dal Club di Roma ai ricercatori dell’MIT, I limiti dello sviluppo, già ci avvertiva che la ricerca all’infinito della crescita era incompatibile con i ‘limiti’ del pianeta. Rimasta insensibile a tali avvertimenti, la società umana si è dimostrata scarsamente capace di rendersi consapevole di tali limiti con misure sagge e lungimiranti.
Non possiamo nasconderci, del resto, che il limite è un concetto ‘poco amato’ dall’uomo occidentale, almeno a partire dalla modernità. Hannah Arendt sottolineava la costante tensione, costitutiva dell’uomo, e quasi ossessiva, a trascendere i limiti della natura, inerenti prima di tutto alla sua stessa condizione umana.
Su questa tensione, da un lato, l’antropologia dominante ha costruito la concezione del soggetto, proprio prescindendo da tutto ciò che può limitarlo (quindi sorvolando su dipendenza, vulnerabilità, limitatezza, imperfezione), per esaltare l’immagine di un io forte, perfettamente razionale e illimitato nella sua libertà; dall’altro, il mainstream ha teorizzato il paradigma riduzionista dell’homo oeconomicus e l’identificazione dell’obiettivo economico con la crescita illimitata. Benché l’uomo tenda a compiacersi del proprio ruolo prometeico di regolatore e dominatore dell’universo, ed aborrisca oggi più che mai l’idea del contenimento e della limitazione, la condizione umana è iscritta dentro dei limiti, che quasi sempre è la natura a fissare. Quando la crescita non è più finalizzata alla soddisfazione dei bisogni ragionevoli di tutti, dei bisogni ‘misurati’, ma all’imperativo del ‘crescere per crescere’, allora diventa necessario creare all’infinito nuovi bisogni, cioè l’iperconsumo, ma anche piegarsi alla logica della finanza, che trasforma il fondamento originario dell’oikonomia nel culto dell’accumulo di denaro nel breve periodo, in sostanza, nell’aristotelica crematistica. Se è noto che presso gli antichi Greci oltrepassare i confini stabiliti dalla divinità, confini che coincidono proprio con i limiti interni alla natura (physis), viene punito come arroganza (hybris), qui è interessante sottolineare che l’economia stessa nasce nell’orizzonte etico della giusta misura (kata metron). Ciò che distingue, secondo Aristotele, la ‘crematistica’ dall’‘economia’ è la mancanza, nella prima, della norma, è la sua forma di ‘economia innaturale’, dato che lo scopo è l’accumulo senza limite di beni. Oggi possiamo leggere l’illimitatezza del profitto e i suoi disastrosi effetti collaterali sulla qualità dell’ambiente proprio come una forma di crematistica: imparare a dominare la tendenza alla dismisura significa rendersi conto che la condizione umana è quella di essere inscritta dentro la natura, non in opposizione ad essa.
Per evitare che le società umane si scontrino con la catastrofe, tracciata dagli studi sui cambiamenti climatici e sulla perdita della biodiversità, ma anche dalle disuguaglianze sociali che non cessano di aumentare, il limite deve tornare a essere ‘sovrano’, per garantire società ancora umane e un mondo ancora vivibile, come ha magistralmente evidenziato Alain Supiot nel suo recente libro La sovranità del limite.
Il nesso tra risposta alla crisi ambientale e necessità di rivedere i rapporti sociali, nonché la stessa immagine dell’uomo, richiama da vicino quella concezione relazionale di responsabilità che Hans Jonas declina come ‘risposta a’ qualcuno, che implica l’attenzione, la cura, il farsi carico dell’altro: la riscoperta della vulnerabilità dell’altro (dell’umanità e della biosfera) costringe non solo alla rivisitazione di concetti normativi come quello di responsabilità, ma soprattutto, più in generale, ad un radicale, quanto difficilissimo per l’uomo occidentale, ripensamento antropologico. Il soggetto autonomo, indipendente, illimitatamente sovrano e libero è una pericolosa illusione e va restituito alla percezione della misura e del limite. Con questo limite devono fare i conti tutte le attività dell’uomo, dall’economia alla politica, poiché la qualità stessa della nostra esistenza dipende dalla qualità del territorio in cui viviamo e dalle attività e dai rapporti umani che in esso si sviluppano. Il legame tra queste dimensioni è dimostrato dal carattere poliedrico della crisi che stiamo attraversando, simbolo di uno squilibrio generato dal perseguimento di uno sviluppo a senso unico, secondo una visione semplificatrice quanto ingannevole, che non tiene conto che a una pura crescita economica non sempre è associata una migliore qualità della vita delle persone e dell’ecosistema, come specifica invece il concetto di ‘sostenibilità’, che richiede espressamente di coniugare il benessere economico con la protezione dell’ambiente e l’equità sociale.
Per questo il limite, anziché continuare a configurarsi come una sorta di ‘tabù’ per l’uomo moderno occidentale, può divenire oggi una risorsa: infatti, esso ci costringe ad accettare la tanto marginalizzata vulnerabilità umana, oltre che ambientale, ciò che è necessario non soltanto per prolungare la nostra presenza nel mondo, ma anche per ritrovare un senso comune, nella consapevolezza che la nostra sopravvivenza presuppone un buon funzionamento delle organizzazioni sociali in armonia con la natura, e che l’equità sociale e il rispetto ambientale sono due aspetti della stessa, possibile, via d’uscita. La dismisura che colpisce l’ambiente ne veicola molte altre, che riguardano l’umanità e la società, il nostro vivere collettivo. È da qui che può generarsi l’opportunità di ripensare la nostra frantumata idea di essere umano, tratteggiata in modo così unilaterale e dimidiato dalla modernità, con un ritrovato senso etico.

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