Il fato inesorabile delle consuetudini umane tende a tradurre ogni emergenza in una chiamata alle armi (simboliche) della retorica. Una curiosa reazione chimica produce aggregazioni ideologiche che il più delle volte non hanno attinenza con la vita reale ma sul pulpito profetico della definizione dei ‘migliori’, dei ‘giusti’, dei profeti a prezzo di sconto, possono premiare con visibilità e consenso. La sua caratteristica è reggere ad ogni sollecitazione fino a quando non cambia il catalizzatore. A quel punto tutto si disgrega immediatamente per ricomporsi in forme che possono anche contraddire le precedenti.
I drammi, con il loro portato di tragedia, sollecitano a ripensare le basi del vivere civile e individuale, rimettere in discussione valori dati per scontati e quasi sempre traditi, occasione dolorosa in cui permettere al pensiero di connettersi con la vita vera, la propria, non distaccarsene assumendo le vesti angeliche del politicamente corretto.
Sono rimasto colpito da una intervista di quelle che in questi giorni si affollano una sull’altra allo sfinimento. Una breve conversazione tra un giornalista e una ragazza tedesca che si adopera come volontaria nei punti di ristoro alla frontiera polacca per rifocillare con generi di conforto i profughi in diaspora forzata dalla Ucraina. Uno dei tanti esempi di bella solidarietà che, per fortuna, in mezzo ai disastri non mancano mai e che dovrebbero indicare una strada concreta a tanti soloni da salotto.
Questo breve scambio mi ha dato uno spunto per riflettere su come la perfezione che si tenta di proiettare sulla esperienza umana a puro scopo di propaganda sia in realtà un coacervo di contraddizioni che in alcuni casi generano il bene oggettivo, come nel caso di questa ragazza, e in alcuni altri casi identificano i prodromi del ‘male’.
La ragazza dice che ha avvertito la necessità impellente di fare qualcosa nel caso specifico della guerra in Ucraina perché, anche se ci sono state e ci sono tuttora altre guerre nel mondo, milioni di diseredati e migranti che affrontano i destini più avversi, questa in particolare riguarda i propri ‘simili’, con una cultura ‘simile’, i vicini di casa.
Il vecchio detto secondo cui aspirare alla perfezione è diabolico ha una parte di vero. Il mio intento non è delineare i tratti di un ideale utopico che appartiene alla menzogna della ideologia. Non vi è considerazione che possa inficiare il bene che questa ragazza, insieme a tanti altri, contribuisce a fare.
Credo però sia importante considerare più da vicino un aspetto delle sue ragioni, che sono certo in tanti condividono.
La solidarietà per il simile, in termini di cultura, appartenenza, storia, familiarità, è indubbiamente legittima e naturale. Non si può prescindere da questo istinto che nella storia è stato foriero di cose buone e risultati dal segno opposto. Allo stesso modo non si può fare confusione. Esiste un ulteriore livello di solidarietà, molto più ‘eversiva’ rispetto alle logiche delle divisioni e delle guerre, un affetto per l’altro che prescinde da ogni categoria di vicinanza e similitudine. Quella sì può fare la differenza, costruire, se mai possibile, un progetto di pace. Diversamente la giustificazione parziale di un impulso che dovrebbe essere universale, rischia di indebolire alla radice ogni gesto che trova il suo simmetrico in chi, per solidarietà culturale, appoggia l’oppressore, o in chi intraprende, sempre per solidarietà, questa volta spirituale, guerre di religione che non hanno senso di esistere e che però, come tutti abbiamo avuto modo di constatare, vengono sostenute anche oggi senza particolari problemi di coscienza.
Quando la funzione, che può essere benissimo rappresentata dalla omogeneità di intenti, fini, tradizione e storia, scavalca lo sguardo dell’altro e sull’altro, significa che non si è ancora maturi per parlare di pace, se non per fare bella figura in qualche talk show propinando un anestetico che mette tutti, quelli che non sono sotto le bombe, a letto tranquilli, sicuri nel proprio bunker su misura formato famiglia.
Dino Cofrancesco dice
“La solidarietà per il simile, in termini di cultura, appartenenza, storia, familiarità, è indubbiamente legittima e naturale. Non si può prescindere da questo istinto che nella storia è stato foriero di cose buone e risultati dal segno opposto. Allo stesso modo non si può fare confusione. Esiste un ulteriore livello di solidarietà, molto più ‘eversiva’ rispetto alle logiche delle divisioni e delle guerre, un affetto per l’altro che prescinde da ogni categoria di vicinanza e similitudine. Quella sì può fare la differenza, costruire, se mai possibile, un progetto di pace. Diversamente la giustificazione parziale di un impulso che dovrebbe essere universale, rischia di indebolire alla radice ogni gesto che trova il suo simmetrico in chi, per solidarietà culturale, appoggia l’oppressore, o in chi intraprende, sempre per solidarietà, questa volta spirituale, guerre di religione che non hanno senso di esistere e che però, come tutti abbiamo avuto modo di constatare, vengono sostenute anche oggi senza particolari problemi di coscienza.”
Sinceramente non capisco. Mi sembra qualcosa sulla linea Rigotti/Remotti, gli inquisitori dell'”identità”..