«Nel 1939 – si legge in un inedito di Augusto Del Noce del 1944 – ebbe inizio in Europa una guerra che si prospettava, come forse mai prima nella storia, lotta della barbarie contro la civiltà; mai le parti della ragione e del torto furono così chiare; mai la civiltà e l’Europa e il cristianesimo così minacciati». In realtà, il Novecento fu il secolo di una violenza di massa cieca, belluina, mai vista prima di allora, che trova le sue origini nelle guerre della Rivoluzione francese che agli oggettivi contrasti tra le ragioni degli Stati sovrani sovrapposero la crociata ideologica intesa a portare dovunque le benedizioni dell’89. Quando lo spirito di crociata si impadronisce dei governi e degli eserciti, i nemici diventano gli infedeli che lo Spirito del Mondo impone di sterminare. La frase «Messieurs les Anglais, tirez les premiers», la celebre citazione associata alla battaglia di Fontenoy (11 maggio 1745), non fu una semplice ‘formule de politesse’, ma certo così viene ricordata per designare le guerre del passato, in cui i due comandanti degli eserciti in guerra, potevano cenare insieme la sera prima della battaglia e ci si combatteva senza odiarsi. A quel mondo l’immortale Jean Renoir avrebbe dedicato il suo capolavoro La grande illusione (1937). Ambientato nel Castello di Koenigsbourg (Alsazia), il film racconta la vicenda dei tre ufficiali francesi, il capitano Boëldieu (Pierre Fresnay), e i due tenenti Maréchal (Jean Gabin) e Rosenthal (Marcel Dalio) nel campo di prigionia diretto dal maggiore tedesco von Rauffenstein (Erich von Stroheim). Gli aristocratici Boëldieu e Rauffenstein appartengono a un’Europa che non c’è più – quella della nobiltà cosmopolita che trattava la guerra come una politica svolta con altri mezzi – mentre i borghesi Maréchal e Rosenthal sono l’Europa nata dalla fine dell’Ancien Régime e, pertanto, hanno culture e sensibilità diverse da quelle del loro carceriere e del loro capitano, che lo combatte lealmente, ma appartiene al suo mondo. L’avvenire, ne è malinconicamente consapevole Rauffenstein, appartiene al terzo stato. Sarà la Seconda guerra mondiale la vera lotta tra i leviatani dalle viscere di bronzo quali sono diventati gli stati nazionali europei con l’uscita di scena delle vecchie classi dirigenti. E sarà una lotta senza quartiere, nello stile rivoluzionario inaugurato dalla Grande Nation negli ultimi anni del Settecento. Dove stile rivoluzionario significherà appunto che si tratta di azzerare una civiltà con i suoi antichi valori e non di rivedere, a tavolino, finita la guerra, i vecchi confini o dividersi lembi d’Africa o d’Asia.
Del Noce aveva scritto: «mai le parti della ragione e del torto furono così chiare»; certo non poteva non essere così per un liberale, per un democratico, per un cattolico. Ma lo stesso avrebbero potuto dire i suoi nemici mortali, fascisti e nazisti, che pensavano di battersi contro una Zivilisation, quella europea e occidentale, malata e decadente che minacciava la Kultur ariana e romana che aveva fatto la grandezza del Vecchio Continente. Che si trattasse di mitologie regressive e sanguinarie non è neppure il caso di sottolineare, ma sta di fatto che, nell’uno e nell’altro campo, si avevano le ‘idee chiare’, c’era gente disposta a sacrificare l’esistenza per esse e ad accettare le conseguenze di un conflitto mortale che distruggeva vita e opere umane.
Se teniamo presente questo dato possiamo misurare la distanza abissale che separa il secolo breve da quello in cui siamo entrati venticinque anni fa. In sintesi, stiamo sperimentando una tragica verità: che la violenza cieca e spietata delle guerre (civili e militari) che si scatena su un campo di battaglia, alla luce del sole, è niente dinanzi alla violenza cieca e spietata che si scatena in un tunnel buio di cui non si vede l’uscita. Viviamo in un’epoca dominata dall’incertezza radicale. Un’esperienza inedita che si traduce nell’angoscia esistenziale di chi non sa dove andare, con chi stare, cosa pensare, ma teme che si abbatta sulla sua vita una catastrofe senza pari.
Fascisti e antifascisti, per restare al caso italiano, non avevano dubbi, sapevano a chi attribuire ragioni e torti, ma noi oggi brancoliamo nelle tenebre della storia. Il 7 ottobre 2023 – quando i miliziani di Hamas, uscendo dalla Striscia di Gaza hanno attaccato di sorpresa il territorio di Israele uccidendo almeno 1194 persone fra civili israeliani e militari e catturandone circa 250 – abbiamo rivissuto l’orrore dell’olocausto, ma oggi, vedendo in tv la striscia di Gaza coventrizzata e ridotta a un paesaggio lunare, ci chiediamo se arruolarci (metaforicamente) nell’esercito di Netanyahu sia un nostro dovere. Abbiamo visto un’Ucraina in mano a un leader spregiudicato, che ha abolito dieci partiti politici, che censura la stampa, che assiste all’esodo di migliaia di connazionali, ma non per questo possiamo stare dalla parte di Putin, che ha invaso il paese in soccorso delle minoranze russofone – i cui diritti erano stati calpestati in dispregio degli Accordi di Minsk – facendo milioni di morti e distruggendo edifici civili, scuole, ospedali. Ci ha indignato la degenerazione politica, etica e culturale favorita negli Stati Uniti dalle amministrazioni democratiche – alleate dei poteri forti e indifferenti alle sorti degli abitanti delle periferie (degradate da un’immigrazione incontrollata) e dei lavoratori penalizzati dalla globalizzazione –, ma ci è difficile stare con Donald Trump che si muove nella complessa realtà istituzionale degli Stati Uniti come il classico elefante nella cristalleria. Anni fa un noto politico italiano, ex comunista, Walter Veltroni, poteva definirsi con orgoglio ‘clintoniano’: ieri come avrebbe potuto definirsi bideniano? E oggi nella destra liberale chi potrebbe dirsi seriamente ‘trumpiano’?
Insomma, prendere partito è diventato tremendamente difficile e molti di noi sono terrorizzati dall’idea di dover morire per cause che non sentono o condividono solo in parte. Abbiamo visto fin troppo bene «di che lagrime grondi e di che sangue» la politica delle potenze euroatlantiche e, dinanzi alle invasioni dell’Afganistan, dell’Iraq, alla distruzione della Siria e della Libia non possono non ripugnarci le retoriche atlantiste, occidentaliste, europeiste anche se troviamo il terzomondismo e il multiculturalismo (in genere filoislamico) ancora più indigesti di quelle retoriche. Indubbiamente sempre la politica internazionale è stata particolarmente ‘sporca’ ma, un tempo, a farcelo dimenticare erano miti collettivi – come l’esportazione della democrazia e, ancor prima, i benefici della modernità recati a società arretrate – che oggi ci fanno solo sorridere. Amaramente!

Roberto Giannetti dice
Condivido l’analisi, come al solito brillante e originale, di Dino Cofrancesco. Tuttavia, c’è un punto su cui non sono d’accordo. Mettere sullo stesso piano Zelensky e Putin significa ignorare la differenza tra l’aggredito e l’aggressore. Credo che Del Noce avrebbe commentato la guerra russo-ucraina usando le stesse parole del suo intervento del 1944: ” mai le parti della ragione e del torto furono così chiare”.
Dino Cofrancesco dice
Completamente d’accordo sull’altra ragione’!
Ieraci Giuseppe dice
Bellissimo, quasi lirico direi, lo scritto di Cofrancesco, il quale però solo adombra le ragioni dello smarrimento nel quale ci troviamo oggi.
Una sicuramente, come implicito nelle parole di Cofrancesco, è il tramonto delle grandi dottrine ottocentesche (democrazia, liberalismo, socialismo), contro le quali si scatena la furia totalitaria del comunismo e del nazi-fascismo. L’ opposizione tra le ideologie ottocentesche (democrazia, liberalismo e socialismo) e i totalitarismi novecenteschi (fascismo e nazismo) caratterizza – credo- tutti i conflitti internazionali nel “secolo breve” (E. Hobsbawm).
Un’altra ragione potrebbe essere la frammentazione della potenza militare oggi nel mondo, legata sia allo sviluppo tecnologico – cioè alla concentrazione di capacità distruttiva immensa in armamenti ridotti – che rende possibile a qualsiasi David (Ucraina) di sfidare Golia (Russia, USA), sia all’ incapacità di questi Golia (Stati-nazione o addirittura Stati-continente) di mobilitare risorse e supporto popolare in imprese titaniche come furono le due Guerre Mondiali.