L’ultimo rapporto di Nation in Transit è intitolato significativamente La falsa promessa del populismo. Il titolo rispecchia l’argomento centrale del rapporto: l’ondata crescente di populismo, le cui origini sono rintracciate nelle elezioni ungheresi del 2010. Alla base di quest’ondata populista, il rapporto di Freedom House identifica come tratto comune la presenza di un leader salvifico con tendenze autoritarie che galvanizza gli elettori in nome di una comunità misticamente omogenea. La fonte di tutte le disgrazie momentanee di questo fantomatico ‘popolo’ si trova sempre in un gruppo più o meno eterogeneo di élite corrotte (dal punto di vista economico e, spesso anche, culturale e spirituale) e con un elenco variabile di nemici esterni (per esempio, le ONG, le banche, ma anche singoli individui, come il finanziere e filantropo George Soros). Su questa struttura discorsiva manichea sono emerse con maggiore visibilità tematiche anti-immigrazione e piattaforme di protezionismo economico, spesso declinato in chiave anti-europea.
Tuttavia, bisogna contestualizzare in maniera più precisa la recente ondata di populismo. Partiamo dall’osservazione condivisa dalla letteratura: il populismo è stato un ospite costante nei sistemi politici post-comunisti. Gli studiosi hanno infatti identificato un gruppo molto eterogeneo sia dal punto di vista del contenuto del suo discorso sia per quello che riguarda le sue origini e le eredità di lunga o media durata. Dal punto di vista elettorale, i partiti populisti dell’Est Europa acquisiscono visibilità e rilevanza politica prevalentemente negli ultimi due decenni. I tre migliori risultati elettorali sono riportati nel 2017 nel caso di ANO (l’Azione dei Cittadini insoddisfatti) con il 29,6% dei voti, seguito ex equo dai risultati nel 2014 dello Jobbik (Il Movimento per un’Ungheria Migliore, con il 20,2% dei consensi) e nel 2000 dall’ormai defunto Partito della Grande Romania (con il 19,5%).
Malgrado le numerose somiglianze con il fenomeno occidentale, sul suolo post-comunista il populismo nasce però da stimoli ben diversi. Infatti, dall’inizio degli anni novanta, le varie formule populiste che si sono succedute nei parlamenti dell’Est sono riconducibili ad una politica di contestazione nei confronti dei partiti e delle élite che hanno gestito la transizione politica ed economica. Prevale, infatti, il sentimento di doppio tradimento nei confronti della comunità organica di riferimento: le élite e i partiti sono accusati di aver alimentato percorsi di mobilità sociale discendente e di aver avvantaggiato le minoranze etniche a discapito delle maggioranze più o meno silenziose. Su questa base, gli aspetti economici si prestano dall’inizio a delle interpretazioni distinte. Se un’interpretazione di stampo liberale prevale nel caso dello SNS (in Slovenia), la natura protezionista contraddistingue il caso del PRM rumeno e Ataka (Attacco) in Bulgaria. Inoltre, benché alcune forme di populismo si siano concentrate su una definizione inclusiva della comunità (cioè, l’inclusione dei non-privilegiati/delle non-élite come nel caso del Fronte della Salvezza Nazionale in Romania), il populismo post-comunista privilegia una definizione ex negativo della comunità. Anche in questo caso emergono differenze importanti. In Ungheria, Repubblica Ceca o Polonia, paesi con una struttura demografica omogenea dal punto di vista etnico, la mobilitazione in chiave etnica è minore; prevale, invece, un discorso di natura sociale e/o religiosa indirizzato inizialmente contro alcuni nemici condivisi, come per esempio la comunità dei rom, le minoranze sessuali e, più recentemente, la comunità degli immigrati.
Con variazioni importanti da caso a caso, rimane presente in tutta la regione un discorso a carattere antisemita. In paesi caratterizzati da una struttura etnica più variegata (come in Bulgaria, Croazia, Estonia, Lettonia, Romania, Slovacchia), oltre all’esclusione in chiave sociale e religiosa delle minoranze, la letteratura identifica forme di esclusione basate sul criterio etnico e linguistico. In particolare, il criterio etnico che esalta i diritti della maggioranza viene integrato con declinazioni morali, culturali e/o religiose secondo il caso e il periodo analizzato. Se i valori post-materialisti e i discorsi anti-immigrazione sono stati assenti dal profilo identitario di questo gruppo eterogeneo di partiti per oltre due decenni, negli ultimi anni la mobilitazione si è focalizzata sempre di più sul tema degli immigrati e dell’Islam.
Nel periodo post-2015 l’associazione fra populismo, anti-immigrazione e post-comunismo è diventata un leitmotiv sia nella stampa che nella letteratura accademica. Un’associazione che si è rivelata particolarmente forte per i paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria (anche se è riscontrabile in tutta la regione). In questa sede, mi limiterò ad analizzare i vari volti e le caratteristiche di ciò che potremmo chiamare il populismo di Visegrád e prenderò come punto di riferimento il 2015: anno che corrisponde all’apice della crisi dei rifugiati in Europa.
Tab. 1 – Evoluzione dei partiti nelle ultime due elezioni (% di voti validi)
Partito | Paese | Penultime elezioni | Ultime elezioni | Differenza |
Jobbik | Ungheria | 16,7 | 20,2 | +3,5 |
Kukiz’15 | Polonia | – | 8,8 | – |
ANO | Repubblica Ceca | 18,7 | 29,6 | +10,9 |
SPD | Repubblica Ceca | 6,9 | 10,6 | +3,7 |
OĽaNO | Slovacchia | 8,6 | 11,0 | +2,4 |
SNS | Slovacchia | 4,6 | 8,6 | +4,0 |
Sme Rodina | Slovenia | – | 6,6 | – |
Dai dati sintetizzati nella tabella 1, emerge il miglior risultato di sempre in quest’area geografica ottenuto da un partito populista (ANO nel 2017). Si nota, inoltre, che tutti i partiti hanno registrato un aumento dei loro consensi. La crescita ‘populista’ è particolarmente visibile nel caso dello SNS slovacco, il partito più longevo tra quelli analizzati. Fondato nel 1990, l’SNS non era riuscito ad entrare nel parlamento nel 2012, ma vi è ritornato con successo nel 2017.
Nel gruppo dei partiti esaminati, possiamo identificare un gruppo abbastanza folto di formule populiste ‘pure’. In questi casi ritroviamo partiti il cui discorso è riconducibile alla centralità del popolo nell’azione politica e alla richiesta veemente di una restituzione dello scettro democratico al suo legittimo possessore. Lo schema interpretativo della dinamica sociale tipica per questi partiti si basa sull’opposizione manichea fra comunità organica ed élite corrotta. Il tema dell’anti-corruzione è centrale e il rinnovo della politica passa quasi sempre dalla testimonianza personale: in tutti i casi abbiamo a che fare con leader con scarsa (se non del tutto assente) esperienza politica che non provengono dal mondo della politica partitica tradizionale.
Se nel passato, nella regione, sono state identificate alcune formule assimilabili ad un populismo di inclusione come nel caso polacco della Samobroona (Autodifesa), oggi si notano soltanto formule esclusiviste. Il gruppo dei partiti della destra radicale populista privilegia cioè un discorso nativista e di esaltazione dell’ordine. In riferimento alla definizione ex negativo degli appartenenti alla comunità organica dei nativi, osserviamo in tutti i casi un’enfasi sull’idealizzazione del popolo e sulla denuncia di ciò che viene percepito come fonte di minaccia. Benché il contenuto, la radicalità e il livello di provocazione possano variare da contesto a contesto, tutti i partiti della destra radicale populista associano la denuncia dell’immigrazione a un’opposizione più ampia al modello multiculturale europeo.
Tuttavia non possiamo riservare l’associazione fra Islam/immigrazione e terrorismo soltanto al discorso di questi partiti populisti. Posizioni simili si ritrovano anche nei discorsi dei partiti mainstream al governo, in particolar modo in Polonia e Ungheria. Anche per questo è possibile osservare, in parallelo alla diffusione dell’elemento populista, un fenomeno di radicalizzazione dei partiti mainstream che si ritrova praticamente in tutta la regione. Del vento in poppa per i populisti sembrano beneficiare anche quei partiti tradizionali che hanno inserito nel loro discorso ancora più elementi tipici della retorica del populismo. È necessaria, dunque, un’analisi più solida dell’impatto di questo Zeitgeist populista sulla qualità democratica nei paesi dell’Est Europa, anche perché, per oltre due decenni, i campioni della democratizzazione post-comunista sono stati proprio l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca.
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